Notti notturne

sabato 9 giugno 2012

L'addio alle "armi" di Don McCullin

Il fotoreporter Don McCullin
Don McCullin,
addio alle    "armi"

di Matteo Tassinari

"Non sopportavo di essere chiamato fotografo di guerra". Per questo l'uomo che ha documentato i conflitti del Novecento dal Vietnam al Libano, ormai ritrae solo luoghi e volti "dove posso mettere la mia anima". Come Kevin Carter, i suoi ricordi sono plumbei come la fuliggine: "Migliaia di fantasmi. Ogni sera, quando vado a dormire, so che sono lì, li sento. Li conosco tutti, uno per uno. Quei volti straziati non si possono dimenticare". Migliaia di fotogrammi nell'archivio di quarantanni di guerre, Vietnam, Cipro, Libano, Afghanistan, Biafra, Ulster, India, il lunghissimo "medagliere" oscuro di uno dei più grandi fotografi del Novecento. Ma non c'è angoscia nella voce di questo signore britannico di 77 anni, semmai tristezza rassegnata: "Posso sopportarli. Ho dormito tante volte di fianco ai cadaveri. Posso convivere con gli spiriti malvagi delle immagini che abitano nella mia casa", rilascia negli anni '70 al N.y.t.. Ora gioca a calcio nel suo prato coi suoi due nipotini, e mentre gioca piange, perché gli vengono in mente i piccoli uccisi con le armi chimiche, che non è morire in modo naturale pur nell'agonia. Penso, in quel caso, subentri qualcosa che abbia a che vedere con l'irrecuperabile, almeno su questa terra.
Cieli wagneriani
Don McCullin ama la sua camera oscura. Ci passa ancora ore ed ore "dev'esserci una ragione per seppellirsi al buio, e io ce l'ho quella ragione". Ma, dopo, ha bisogno di grandi spazi disabitati, di respiro e solitudine. Esce spesso di casa con la fotocamera a tracolla, solo e d'inverno: "quando la luce è cinerea e il cielo è wagneriano". Donald McCullin è stanco di guerra e di guerre. Per lui non è la stessa cosa come per noi. Lui ne ha documentate almeno una ventina. Accadeva 25 anni fa, "quando mi accorsi che non sopportavo più di essere definito 'fotografo di guerra', espressione terribile, che suona mercenaria e complice".
Goya non ha visto quel che ho visto io
Basti pensare che i lavori di Don McCullin erano considerati così importanti, evocativi, realistici, che il governo britannico rifiutò di concedergli un pass da giornalista per raccontare la guerra nelle isole Falkland. Henri Cartier-Bresson, visitando una sua mostra, disse una sola parola: "Goya". "Sì, ma Goya" - commentò il fotografo - "non aveva abitato gli scenari dei suoi massacri dipinti. Io si, ho visto le persone squarciare donne incinta e stampate nelle foto da me scattate. So che non è giusto far vedere quello che la guerra compie nel suo atto. E' orribile ma non scusa a nessuno. Ma sarebbe peggio silenziare ogni guerra. Se la gente vedesse la faccia della guerra, farebbero di tutto perché cessi ogni conflitto, subito. E' sempre una questione di visuale, prospettiva, sensibilità, verità, interessi politici ed economici".
Famiglia cambogiana al capezzale della figlia
La     guerra
di Don     MucCllin
Lcondanna di chi fotografa, è dover far passare attraverso i propri occhi, la propria anima, le immagini con cui cerchi di sconvolgere la tranquillità di quelli che stanno a casa e non sanno nulla di ciò che accade, delle mattanze sparse per il mondo a tutte le ore, di notte, di giorno. Il fardello della testimonianza può schiantare la coscienza, però è necessario averne almeno una per fare questo mestiere ed essere un uomo degno di questo appellativo. "Non contano nulla i sentimenti dei fotografi. Quel che conta è la sofferenza che c'è dentro le mie foto. Come mi sento io non ha alcuna importanza. Ogni dolore deve essere raccontato e le immagini sono più dirette delle parole. So che il mio linguaggio ha un impatto talvolta scioccante col lettore essendo per sua natura la foto più immediata delle parole. Per me fotografare la guerra era una crociata, era il mio destino, era il mio obolo da pagare al Dio della misericordia".
A     queste
parole    si
aggiungono altre che dicono, che l'uomo dovrebbe imparare ad affrontare il dolore perché non è tutto da gettare, direbbe don McCulinn: "C'è un dolore che tormenta e uno che matura. Un dolore che distrugge e un altro che avvisa per tempo di ciò che occorre fare. Dipende, personalmente ne sono persuaso, da come viviamo il proprio dolore, che è uguale a quello altrui, anche se nei fatti poi la realtà fa a cazzotti con la realtà". Gaber stesso sosteneva che gli faceva male il Mondo, ma appena un dente si cariava, ecco che il Mondo e le sue macerie scomparivano. Indicativo delle proporzioni che diamo al valore del dolore, nostro e altrui. E qui ci sarebbero da scrivere fiumi di parole, ma oltre a non aver lo spazio a cosa servirebbe? Semmai m'indigna il potere delle maggioranze fagocitatrici di ogni sentimento umano.
Un lamento eterno sfuggente ad ogni retorica

Non credevo alle mie foto
Nelle sue parole s'avverte il peso dell'anima di chi l'esprime: "Non permetti di divertirti, capisci che il tuo vero compito è essere lì e fare dei tuoi occhi la tua voce, farlo per conto delle vittime, non per i tuoi brividi privati. Vedere un bambino che ti crolla davanti per fame, vederne morire centinaia ogni giorno, non è umano, non è tollerabile", non pensavi fosse possibile. C'è una foto di McCullin che tutto il mondo conosce: un bimbo biafrano albino, testa enorme, corpo internamente prosciugato, sguardo vuoto, assurdamente in piedi, una scatoletta di tonno vuota nella mano scheletrita: "Non riesco più a guardare quella foto. Sono vent'anni che non la stampo. È la fotografia dell'oscenità più caliginosa, torbida, una foto annegata nella fuliggine. Mi rendo conto che queste parole risultino vuote, speciose. Chi non è mai stato in un fronte non potrà mai capire".

Parole del genere, con grande ipocrisia, le abbiamo sentite troppe volte per considerarci innocenti, passandoci sopra come si fa con le foglie per terra calpestate nel nostro cammino imprevisto e accidentale. Ormai siamo abituati al sangue in tv, che pensiamo di vedere un film e pensare che quel rosso sia solo salsa di pomodoro. Abbiamo mescolato la finzione con la realtà fino a non capirci più nulla, perché questa, la realtà, ci era troppo insopportabile e la via di fuga più comoda e alla portata di tutti, si chiamava indifferenza. Il male più orribile di questa umanità per Madre Teresa di Calcutta.

Quando devi fare foto di guerra è come se tu stesso fossi in guerra. "Per noi fotografi devono parlare le immagini. Non ho vinto la mia crociata. Nessuna fotografia ha mai fermato una guerra". Le due foto più famose del Vietnam, l'esecuzione del Vietcong, la bambina bruciata dal napalm, scattate da due grandi fotografi non hanno fermato quei massacri. "Ci sono guerre, oggi? Si, ce ne sono", riprende Don McCullin "ce ne saranno domani. Quando fotografavo le guerre, l'ultimo rifugio del mio ottimismo naïf era che la domenica mattina, dopo aver lavorato per decenni al Sunday Times, un primo ministro, vedendo una mia foto, si facesse cogliere da un dubbio di coscienza e facesse di tutto per far cessare una, dico una guerra. Tutte menate per non vedere fino in fondo la disperazione del non detto per incapacità. Credetemi, da casa è facile, in guerra, con gente sbrancata, non sei più te stesso, ma quello che non farò mai è cercare di convincere qualcuno delle nostre foto, poveri folli che hanno scelto di stringere la mano alla guerra. Che pazzia!"
India, la nuova grande potenza, come la chiamano i mercati finanziari
Stravolto dall'orrore
A chi ha
lasciato i campi di battaglia, non lo sa. È amareggiato da quel che vede sui giornali. Ora sono anziano, con un bagaglio di ricordi pesante. Ma questi fotografi embedded, al seguito degli eserciti, non capiscono che è un trucco, che è tutta censura oggi? Ti fanno vedere quel che vogliono loro, e intanto non si vede una sola foto dalla Siria che brucia viva. Bisogna far vedere alla gente quel che non può vedere, quel che nessuno può sopportare di vedere o questo mestiere non ha senso. Ricordati che una foto parla molto di più di 4 o 5 mila parole". Ed è verissimo! Indebolito dalla guerra, ma non pentito, Don McCullin oggi è un uomo arrivato, logoro, direi allo stremo. Perché gli piaceva fermare la realtà: "Ho fatto almeno una cosa irragionevole: distruggere il mio primo matrimonio, per poi vedere mia moglie ammalarsi e morire il giorno stesso delle nozze di nostro figlio. Ho mostrato tante tragedie agli altri, la vita ne aveva una da mostrare a me. A proposito della Siria. La si muore al ritmo della mattanza. Le agenzie stampa parlano di 200 persone uccise al giorno, ma chissà quanti sono di più i deceduti per la guerra, sono i dimenticati, i morti dell'oblio, chi viene falciato da un machete senza che nessuno reclami il suo corpo o un briciolo di giustizia per quella persona o donna o bambino o anziano che sia".
Rwanda, 1994. Un milione di morti in 8 mesi
Il      massacro
dei        massacri

Il Rwanda, per pochi mesi, diventa l'abisso dei tormenti umani, l'incubo dell'angoscia in uno scenario d'oltretomba. E' il Paese del patimento, dimenticato da tutti, perché tutti sapevano. I mitra parlano, i pappagalli ruttano. I bambini non giocano, sparano, imbracciando Kalashnikov più grandi di loro. Li chiamano i "bambini con l'anima morta". In poche settimane vengono massacrate un milione di persone. Si dice che sia il più cruento dei massacri, il più orribile, quello di cui si ha ancora paura ne solo nominarlo. E' il simbolo di tutte le sconfitte. E' l'apocalisse.  Il genocidio del Rwanda, passerà alla storia come un momento di pazzia assoluta e totale, spaventoso perché senza senso, neanche ragioni di guerra o militari motivano quell'ondata di violenza devastante, ammesso, e non concesso, che la guerra e la milizia in guerra abbiano senso. Uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo. Dal 6 aprile alla metà di luglio,  per circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente, a colpi di armi da fuoco, machete pangas e bastoni chiodati, 1milione di persone. Nessuno è risparmiato. Ripeto, senza neanche un motivo folle.

Sotto questo
Cielo eccelso
Il genocidio, ufficialmente, viene considerato concluso alla fine dell'Opération Turquoise, una missione umanitaria voluta e intrapresa dai francesi, sotto autorizzazione ONU. Le vittime furono Tutsi. L'idea di una differenza di tipo razziale fra gli Hutu e i Tutsi. James Nachtwey, un altro grande fotoreporter di guerra, ha sacrificato se stesso per documentare guerre, povertà e macellerie sociali. Ha vissuto in prima persona numerosi drammi dovuti all’essere sempre in prima linea e quando scrivo prima linea, intendo per davvero a pochi centimetri da un cecchino o tra i bombardamenti. Per citarne alcuni: Somalia, Sudafrica, Bosnia, Russia, Cecenia, Kosovo, Romania, Brasile. E Rwanda, lui c’era sempre quando era meglio per chiunque altro non esserci affatto. James è testimone di conflitti a fuoco, migliaia di linciaggi da parte di uomini armati di machete contro un suo simile, di carestie che lentamente uccidevano bambini. Il teatro era il Rwanda, il massacro del 1994, ma passato alla storia, anche alle impressionanti foto di James Nachtwey, come il più cruento, il più feroce dei crimini di guerra avvenuti sotto questo grande cielo.


Legendary photographer James Nachtwey, testimone del massacro ruandese