Notti notturne

mercoledì 7 marzo 2012

Monica Vitti


La chiamavano

bocca      di rosa

          di Matteo Tassinari

Tempo che passa,  rubando sopravvivenze, dove tutto è chiasso e clangore o bisbiglio. E' stata mandata in onda una fiction su Walter Chiari prodotta da Rai Uno che al vero non somiglia neppure all'ombra. Un autentico depistaggio culturale di una delle carriere artistiche più folgoranti dell'arte della commedia all'italiana. Diventa un'auto difesa quella di ricordare chi la celebrità di Walter l'ha presa a schiaffi. Pochi mesi fa, Monica Vitti, ha compiuto in silenzio 81 anni, come una stella malata. L'ultima apparizione sul set dell'Anna Magnani bionda, risale al 1990 con la sua prima prova da regista e sceneggiatrice in “Scandalo segreto” che non ebbe molto successo.
L'attrice comica    e dramm  atica,
ora massacrata dalla gigantesca gomma che cancella tutto nella memoria riducendo il tempo ad una dimensione senza spazi precisi e delineati, feconda come una specie di sorriso, bionda ma pur sempre mediterranea per quanto tormentata da una voce che incantava le sirene dei mari, si sta lasciando piovere addosso, lascia che la grandine le scivoli via dal paltò. Un ricordo aprente, ad una donna che "preferiva il ruolo della buffona a quello della gnocca", come lei stessa diceva e anche come fosse distaccata dalla sua rara bellezza: "Le attrici, diciamo, bruttine che oggi hanno successo in Italia, lo devono a me. Sono io che ho sfondato la porta", l'auto-ironia non gli è mai difettata, la dimostrazione più tangibile di ciò è l'affetto che tutti le portano, sotto forma di un grande rispetto. E' il compleanno assente di una diva invisibile. Non è la prima e non sarà neanche l'ultima. Lucio Battisti e Mina cercarono (e cercano) un rifugio eremitico, considerato che la loro fama li precedeva e per loro era verosimilmente tempesta. 

1971, Vitti e Sordi ne "Le coppie" di Monicelli 
Perchè     sono così
stanca?

Ma non è il solito coccodrillo diun brillante attrice romana verace, illuminata, che Monicelli diresse ne “Le coppie”, oppure i lavori con Antonioni e Scola. Come non voglio ricordare i suoi alter ego di lavoro, dai più grandi attori della commedia italiana come Sordi e Tognazzi, ai mattatori Gassman e Manfredi. Una ventata di freschezza nel panorama cinematografico con un'attrice bella ma anche con la grande capacità di far ridere. Buffa, ironica, Monica è sempre rassicurante come la sua voce, comunque sempre ironicamente consolatoria.
Con Tognazzi nell'Anatra all'arancia
Non    per niente... 

in quegli anni, sarà stato per via delle attrici straniere come Charlotte Rampling, Catherine Deneuve, Maria Schneider a interpretare le inquietudini drammatiche del nostro cinema, che Monica pareva prendesse il meglio del resto, dove le scene di sesso erano simulate ma non con intenti ingrifati, ma con singolarità generosa e candido nonché incauto dinamismo, del tutto irriverente  agli stampi industriali dell'epoca, dove si era fighe o racchie, mai perfettamente comiche come Maria Luisa Marisa Ceciarelli della commedia all'italiana con Gassman, Sordi, Manfredi, Tognazzi, mica Scamarcio o Accorsi, con tanto rispetto.
Si lamentava di non essere stata troppo ribelle da piccola per via di un'educazione molto aspra impostagli, pur avendo una madre che soffriva molto a causa di una malattia che l'ha accompagnata per molte lune e soli per poi, finalmente, abbandonarla e lasciare che l'anima prendesse il volo.

A letto,
succede  di  tutto
E con il garbo e la finezza di sempre, la riservatezza, lo stile che dei suoi quaranta anni di carriera, potrà permettersi di sfidare i cortigiani "benpensanti" senza eccessi e con intelligenza. "A letto succede di tutto" ammetteva con candore, donna, negli '70, detto con intimo calore di donna lungimirante. Ma ad una così, con quella rauca risata e quella voce roca e dolce contemporaneamente, inconfondibile, anche l'Italia d'allora non poteva che concedergli tutto.
Le Sirene
Non    ha mai

rotto i     ciglioni a
nessuno con i soliti discorsi sul femminismo. Diceva che faceva l'attrice per non morire e quando aveva 14 anni di vita, aveva deciso di smettere di vivere, solo capendo che poteva farcela solo mettendo i panni di altri personaggi, capì che poteva farcela anche lei. Monica era considerata una donna del popolo, quasi senza istruzione, per poi dimostrare attraverso i ruoli difficili da interpretare in teatro, una donna intelligente, che aveva capito anche qui la sua direzione. Si può dire che l'arte abbia anche salvato Monica, la bocca di rosa del cinema italiano ammiccando Faber. "Le persone non si dividono in donne e uomini, ma in persone", disse in una conferenza stampa a Cinecittà. Ma che volete di più da queste vite? "Gocce di splendore, consegnate al tutto è compiuto", per dirla col poeta Mutis. 










            La Regina
della      commedia
Il rispetto che   Monica ha per se e per gli altri, la pone con una doppia bellezza, quella fisica e quella senile. Ma la Commedia all'italiana ha "la sua Vitti", e la conserva gelosamente nel suo immaginario. La sua scompigliata bellezza che induceva il suo interlocutore ad abbandonarsi ad essa, al punto che era difficile, impossibile dirle di no. Una donna che piace alle donne e che in lei si rivedono, mentre i sogni degli italiani guardavano, miopemente, all'estero. “Ho lavorato sempre, tutta la vita, onesta con gli altri, ho fatto tanto ridere, che è il mio orgoglio. Avrò commesso degli errori. Ma oggi, a quest'ora, dove ho sbagliato e con chi? Perché sono così stanca da non farcela ad andare avanti?”, si chiedeva Monica poco prima dell'abbandono, con quella voce roca, da fumatrice, anche se non lo era. L'insieme di queste rozze capacità la rendeva l'amante perfetta per ogni italiano di quel periodo, non la diva immersa nel profumo, in naftalina: "Con il mare ho un rapporto travolgente, quando lo vedo muoversi, impazzire, calmarsi, cambiare colore, rotta, è il mio amante".
Per Mario Monicelli, era la preferita


Quella grazia
mai più ritrovata



La sua voglia instancabile del set, il suo amore per le asse chiodate dei teatri romani degli anni '70, quelli di borgata, quelli scalcinati, dai camerini senza riscaldamento, dove in dicembre, in mezzo al freddo, doveva, doveva cambiarsi e mettersi dei vestiti talvolta succinti, ma troppa era la generosità di una donna irripetibile. Una donna che avrebbe fatto impazzire ogni uomo al suo livello e a lei somigliante. Sentiero fatto di bianco e nero che rimangono, incomunicabilità e sorrisi. Quelli, spesso, con Alberto Sordi, che bravo come con lei accanto non è mai stato (non nel saper far ridere, quantomeno). Sordi che la amava anche quando la picchiava, come in quella scena che tutti ricordano, il film era Amore mio aiutami, quando litigano in spiaggia e lui la riempie di botte (ad essere onesti non era la Vitti ma Fiorella Mannoia, al tempo stuntgirl, ma il cinema non è mai onesto: altrimenti non farebbe sognare).

Quando scoprimmo e c'innamorammo di
Monica?
Non era credibile, con quello sguardo languido, fascino elegante seppur trasandato, verve irridente e brusca. Antidiva per definizione. Niente Sophia Loren. No, al divismo di tante attrici anche troppo note e anche amiche sue. L'umanità, il suo modo di porsi davanti alla cinepresa o a teatro, era affidato all'improvvisazione, a quel modo di percepire la vita come un'eterno riprovarci. Dotata di naturale leggerezza che le ha permesso di passare da ruoli tormentati come nevroticamente surreali. Oppure, capace di ruoli estremamente drammatici: "l'attrice che sarebbe piaciuta dirigere a tutti i registi" disse di lei Antonioni. E con la sua uscita dalle scene, ci si accorge del vuoto che ha lasciato, incolmabile per ora, come succede anche per il monumentale Walter Chiari.
Walter Chiari all'attacco di un paparazzo

   L’italiota, sempre
un pò beota
Tutta    gente che fosse nata a Hollywood, avrebbero vinto Oscar alla carriera, ma essendo nata in Italia, si "accontentavano" del gradimento italiota sempre un pò beota. Provate se ci riuscite. E' impossibile trovare una donna che possa dire: "ecco, lei recita come Monica". Era una donna molto attaccata alla sua Roma e diceva che se proprio avesse dovuto vivere in un altra città avrebbe scelto Parigi per la sua allegria, la sua vivacità, e anche per il suo tradizionalismo: "Amo Parigi, quasi quanto Roma", disse.

La Melato? Mah!

Non  c'è. Nel mondo dello show-biz e degli artisti, non riesco a vedere una sua "erede", forse la Melato, ma pensandoci bene non ci siamo ancora. "Non è possibile", commenta lapidariamente il critico televisivo per il Corriere della Sera Aldo Grasso, "Monica, in modo molto lascivo e melanconico, è stata consegnata all'eternità dalle sue memorabili interpretazioni intramontabili" conclude Grasso, e aggiungo io dalla sua attuale situazione che a noi non ce ne deve fregare nulla se non in termini di amore, alla stessa stregua che si prova per tutti\e.
E' più semplice 
scrivere che Monica è nel nostro immaginario sempre la signora bionda e piacente, pimpante e ricca di personalità e capelli, le extension esistevano già, ma lei non ne aveva bisogno. Ma l'anagrafe parla e non fa sconti a nessuno. Maria Luisa Ceciarelli, è stata la "compagna" di molti. Un'anima femminile che fa il pari con poche, considerandola unica. Se volessi ascoltare Monica Vitti, cliccherei sicuramente su "Bocca di rosa" di De André. Per l'afflato che accomunavano le due donne nell'atto della generosità spirituale, sensuale e offerta di piacere di fronte alla durezza della vita senza per questa essere puttane, semmai grandi donne e signore che nulla avevano a che vedere con moda o cinema nei suoi spazi più angusti.
















Tre attori     per
il grande dramma
Diventa irraggiungibile proprio come modello di donna, quando esplose col "Dramma della gelosia" del grande Ettore Scola. E' il 1970, doveva scegliere fra un fantastico Mastroianni e un avventuroso Giannini. Ho rivisto quella pellicola di recente e ho pensato che siamo al livello dei grandi kolossal americani venduti alla loro maniera. Ho pensato che questi tre avevano superato con la recitazione, il solco dell'olimpo della settima arte. Il film è un monumento soprattutto grazie ai dialoghi, comici e farciti di sentimento travolgente, passionali. È una pellicola essenzialmente "parlata" dove gli stessi protagonisti si rivolgono dallo schermo agli spettatori. Un espediente teso a cercare il coinvolgimento e la complicità del pubblico, un'esperienza mediatica con i personaggi della storia. Marcello Mastroianni vinse la Palma d'oro al Festival di Cannes come miglior attore, forse un riconoscimento tardivo di migliori interpretazioni del grande attore mondiale qual'era. 

                                                    La bellezza di
1000 farfalle

Purtroppo, Monica Vitti, al contrario di tante colleghe che compaiono ancora sul piccolo schermo in noti talk show terribili come quello condotto da Barbara D'Urso su Canale5 tutti i pomeriggi, non può concedersi a causa di una malattia che la costringe da anni alla riservatezza e penso che non ci sarebbe neppure andata. Per il compleanno dell'attrice il "Festival Internazionale del Cinema di Roma", all'Auditorium Parco della Musica, le ha reso omaggio con una mostra fotografica e la proiezione di alcuni suoi film e la presentazione di un libro a lei dedicato. Mancava Monica, non c'era la festeggiata, che vive ormai lontana dai riflettori e accudita con amore dal compagno, il fotografo Roberto Russo sposato nel 2000 in Campidoglio. Si sono conosciuti quando lui aveva 25 anni e lei 41: “Con Roberto siamo amici, fratelli, amanti, compagni di giochi antagonisti. Roberto è segreto, attento, intelligente e sottile, scopre da un mio sguardo, da un gesto quello che penso”.  Nel 1988 il giornale francese "Le Monde", pubblicò la notizia della sua morte. Lei ringraziò i giornalisti per una gaffe che di certo le avrebbe "allungato la vita".
L'ultima fotografia pubblica di Monica Vitti

giovedì 1 marzo 2012

Irsuto genio peloso

Lucio Dalla, disegnato da Manara
"Conosco un posto nel mio cuore, dove tira sempre il vento, per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento, non c'è niente da capire basta sedersi ad ascoltare" (Cara 1980)
Di "Futura", un critico musicale scrisse che era la canzone del secolo. Certo, era un giornalista spinto dall'onda dell'entusiasmo, anche se poi, una volta ascoltata, gli si perdona tutto a chi enfatizzò, con eccesso di zelo, quel brano.
Caro Lucio ti scrivo

Matteo Tassinari



E' morto Lucio? Cosa? Impossibile! Uno scherzo sul web di qualche frescone, abbiamo pensato, ormai assuefatti alla banalizzazione d’un evento come quello della morte, divenuto anch’esso liquido, evanescente, irreale, post-moderno? Si, appena sentita la notizia della scomparsa dell'artista, non so perché, ma in molti l'abbiamo presa come fosse una barzelletta. “È la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto”, cantava Lucio in quello che è considerato il suo capolavoro assoluto: "Caruso".

La tragedia contemporanea consiste appunto in questo: nel non pensarci poi tanto. La morte giunge, radicale e grave, incredibilmente volatile e sempre troppo presto. Prende e rapisce e lavora l’inafferrabile nel mistero che tutti noi sappiamo. Lucio era anche cristiano. E da tale, per lui, non era la morte a giungere, ma la vita a finire e (ragionando sul filo della lama del rasoio), come il suo "Caruso", non ci pensava mica poi tanto perché molto aveva amato. La vita finisce anche così, per tutti, o per alcuni, anche per quelli con molti peli sulle spalle e fanno di tutto per sembrare uno scimmione scappato dal qualche circo in città.




















Geniaccio      irsuto
Più poveri, tutti quanti, appena ci è giunta la notizia della morte di Lucio Dalla. Morte vicina a quel "miracolo" di canzone "4 marzo" che tramutò in note per timbrare un'intera generazione alla ricerca di qualcosa di diverso da Claudio Villa. È solo il primo 4 marzo che passiamo senza di lui, e siccome non ci pieghiamo alla retorica buonista della morte, pur sapendo che non sarà neanche l'ultimo, allora un dettaglio di post va utilizzato per quello che invece ci lascia in parole e musica Lucio Dalla. Una volta, al Palazzetto di Forlì nel 1991, l'intervistai al volo.

Il tempo che Samuele Bersani, che ancora nessuno conosceva, suonasse una canzone nel concerto del jazzista bolognese, suo scopritore musicale. Mi disse ai piedi del palcoscenico quindi in un frastuono pazzesco: "Vai spara, cosa vuoi sapere?" e di li nacque un'intervista che allungai come quando devi tirare il collo alle galline per fare il brodo dove bollire i cappelletti. Un'intervista molto fantasiosa, anche perché il pezzo dell'ancora sconosciuto Samuele Bersani durò appena 5 minuti. Ricordo solo che le domande le dovevo urlare e lui le risposte quasi me le sputava in faccia. Da lì a pochi secondi sarebbe poi dovuto tornare sul palco a prendere le redini e guidare un palazzetto colmo con la sua arte e il suo bidibibodibidù!


Battito sincopato

Abbiamo eluso una verità così semplice? Colpa nostra. Quest'uomo di piccola statura, aveva un cuore grande come le canzoni, quelle dolci e imbarazzate, che scriveva. Quella solitudine mai confessata a pieno, un piccolo grande uomo che se n'è andato con discrezione. Ma troppo presto. C'è un aspetto della propria vecchiaia cui di solito non penso, che è sottile ma forse il più brutto: vedere le persone intorno a te che, quelle a cui vuoi bene, morire. Una voce capace di espansioni sublimi e profondità barittonali, grappoli di note in una riga di spartito, talvolta facendo impazzire gli orchestrali stessi con arrangiamenti racchiusi nel battere sincopatico e jazzistico di Dalla il jam session-man. Lo dico senza timore di retorica alcuna. Da quanti secoli manca un soggetto come lui? Lucio Dalla era un meticcio marino. Non si capiva bene da quale parte iniziasse, o finisse, il suo corpo basso e stortignaccolo lo rendevano immediatamente simpatico. Un mozzo villoso? Una Querelle italiana, alla Rainer Fassbinder? Un artista che anche i lati più spigolosi dell'esistenza, li rendeva meno appuntiti, come i ricordi di "Anna e Marco", una tragedia in chiave minimalista di un amore adolescenziale che non troverà mai pari dignità ai loro sogni.














Lampi di ferrigna ironia
Tutto questo, e molto di più. Guccini, suo amico dalla fine anni '50 suonatori della band dell'Osteria da Vito di Bologna, anni mitici sul serio, diceva: "Ogni tanto ci sono canzoni di colleghi che fanno dire: porca vacca, questa avrei voluta scriverla io. A me capita con "Com'è profondo il mare". Un periferico che come nessuno aveva saputo scrutare Milano. Quella degli anni ’70, truce e concitata, di Corso Buenos Ayres. Odiava quella frenesia da calibro 9, il bolognese Lucio e lo urlava, lo digrignava anzi, sempre con un lampo di ferrigna ironia, ma sapeva anche accarezzare così bene, e delicatamente, la città nuda e tentacolare. “Milano lontana dal cielo, tra la vita e la morte continua il tuo mistero”.
L'inquietudine di una lettera che rompe gli argini della ragione e della lontananza perché la vita bussa all'uscio del proprio presente e passato e del suo mistero impetuoso per noi umani. Lo sopportiamo perché non possiamo sfuggirli. Il fatto che sia una regola per tutti lo rende meno atroce di quel che è, Lucio, dalla sua, aveva l'ironia e l'originalità a salvarlo, più che il destino è stata la sua voglia e la sua strana metrica poetica a renderlo singolare al punto che altri artisti a lui simili è faticoso trovarli. Anzi, non ci sono proprio.

Altro mare profondo
Era la sua traversata biblica, oceanica, di una sensibilità ampia e di un tormento profondo, come quello delle zanzare o mosche che a suo padre gli chiedeva di cacciare via perché lui, Lucio, davano fastidio. Con qualche accento disperato, degno d’un moderno Giobbe, un pre-raffaellita a divenire: “Frattanto un mistico, forse un aviatore, inventò la commozione, che mise d’accordo tutti, i belli con i brutti, con qualche danno per i brutti che si videro consegnare un pezzo di specchio così da potersi guardare”. La religione ci ha lasciati più inguaiati di prima, quando si è istituzionalizzata. E chi ne ha fatto le spese è sempre stato colui che più povero era e tale è rimasto. Lo stesso concetto nell’altro suo eroe marino, Ulisse: “Ho immaginato la protesta d’un marinaio: senta signor Ulisse, lei parte, va, conquista mondi, seduce le donne più belle, e quando si trova nei guai, tracchete! Ecco un dio che la salva".














"Ci fosse un altro mondo, sarei pronto"
"I suoi sbagli, però, siamo noi a pagarli, noi non protetti da nessuna divinità, noi che abbiamo solo una casa e una moglie e un misero stipendio”. Con queste parole, una volta, Dalla spiegò la genesi di Itaca, con quel magnifico coro “fuori sincro” maschile e pure femminile. Coro di mondine e di operaie, perché Itaca era la metafora, anche, della violenza del potere sulla classe oppressa. Forse, persino del capitalista illuminato. Come nell’”orazion picciola” dell’Ulisse dantesco, dove alla fine anche il marinaio di Lucio resta sedotto dal fascino ambiguo dell’eloquio itacense: “Anche la paura in fondo, mi dà sempre un gusto strano: se ci fosse ancora un nuovo mondo, sarei pronto, partiamo?”. Domandò Lucio.
Ma l'impresa eccezionale dammi retta, è essere normale

Varie tonalità di blu, dal celeste all’oltremare, sempre amato. Mare profondo, pesci che non si fanno afferrare. Una sola, bianca, sotto un sole greco, e quel prigioniero che sogna la donna, lo vedo relegato in uno stambugio levantino, anch’esso chiaro, ma d’un silenzio di calce, spoglio, vano. Che aspetta, aspetta, con un sorriso sciocco, balengo. Morto il prigioniero con un’allegria (Quale allegria?) azzurra d’illusione, ma forse ambiguamente rappacificato, accarezzato da un’ala di misericordia. Nel '66 fa da spalla a Jimi Hendrix nel concerto al Piper di Milano.
È il periodo della beat generation, della ribellione giovanile, del rifiuto degli schemi. Ma Lucio Dalla è più un solitario agitatore, un indipendente alternativo. Così l'abbandono dei toni più duri corrisponde proprio con il grande boom del cantante che approda alle grandi cifre di vendita con 4 marzo 1943, cui seguono canzoni come Piazza Grande, Il gigante e la bambina, Itaca. Dal '74 al '77 opera un altro cambiamento di rotta. Inaugura un tipo di spettacolo a metà strada tra il concerto vero e proprio e il teatro militante, ed avvia una proficua collaborazione artistica con il poeta bolognese Roberto Roversi orientando la sua produzione verso contenuti civili.
Il re degli estrosi pelosi
Cantava parlando

La voce di Lucio Dalla, è anch’essa leggera mentre lo racconta, quasi buttata lì, fischiettata in semitono, quasi che la sua voce parlante fosse anche quella musica da suonare a seconda di quello che fosse il significato di quel che andava cianciando. In pratica, ti parlava cantando. E senza scalpore, senza preavvisi, senza aver il tempo di capire quel che ti stava accadendo, senza capire il significato della morte. Salutarti così, trafelati, in fretta, tra una cena e un Tg, un boccone di patate e l'arrivo di un sms, non è stato semplice neanche per noi. Non c'era lo stile di "Attenti al lupo!". Ci hai solo preceduti, dolce irsuto genio. 
"Ma sì, è la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto, anzi si sentiva felice e ricominciò il suo canto"
(Lucio Dalla, Caruso)
L'ormai celebre e surreale video-clip di "Attenti al lupo" insieme alle coriste
Iskra Menarini e Carolina Balbonicon la quale vi auguro buona vita

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*Ecco il mistero, sotto un cielo di ferro e di gesso, l’uomo riesce ad amare lo stesso e ama davvero nessuna certezza che commozione, che tenerezza*