Notti notturne

giovedì 21 giugno 2012

De André, affiliato alle B.R.

Così i Servizi     segreti
schedarono     il cantautore
De André Fabrizio?
terr orista, anarchico     e
cantautore
        di Matteo Tassinari
Viene da sorridere. Uno canta (e in che modo) di pace, della conclusione di tutte le guerre per tutta la sua vita, denuncia i soprusi del potere verso i più deboli e dove va a finire? Sul taccuino "nero" dei Servizi segreti antiterrorismo italiani. Mi pare logico, secondo le regole poche, ma ferree (come le idee) degli apparati statali dediti alla sicurezza dell'Ordine (e disordine) targati anni '70. Verrebbe da ridere, se non fosse che è tutto vero tutto "messo a verbale", per parlare con il linguaggio di quegli ambienti dall'odore di ufficio statale vuoto. Solo perché donava una quota mensile per un abbonamento ad una rivista considerata dai Servizi extraparlamentare (in quegli anni ce n'erano a migliaia) era per forza un'allineato, un fiancheggiatore, questi erano i termini della questione.

"Imperizie    e 
negligenze" 
        Perché 
           qua ndo
si     ha
a che fare con l'illecito, che significa non chiaro, quindi anche l'arte, tutto diventa lecito, anche l'illecito, o le botte da caserma. Chiedetelo ad Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, ucciso dalla Polizia carceraria per "imperizie e negligenze" (per usare i termini burocratici e procedurali che non rendono giustizia alla gravità dell'accaduto) con complicità di carattere medico per "mancato intervento". Chiedetelo ai famigliari di Federico Aldrovandi ammazzato la mattina a botte e calci. Ecco, questa, immagino, sarebbe stata materia per Faber, dove avrebbe aperto nuove pagine e immagini virtuose oltre che vertiginose e inchiodare i criminali alle loro imprecisioni fattuali. Del resto, il tema del Potere dei più forti sui più deboli, è evidente che sia tra i più suggestivi ad aver colpito la sensibilità e la poetica dell'artista genovese, divenendo fonte primaria d'ispirazione creativa per Fabrizio.
"...e il divieto di parlare"
La Domenica

delle "Palme"
Un potere non soltanto
politico, lontano, istituzionale, ma vessatorio, vendicativo, capace di snaturare tutto, alterare i linguaggi e capovolgerli al proprio leit motiv. Come insabbiamenti, coperture, occultamenti di documenti quando va bene, di cadaveri quando va proprio male. Archiviazioni immotivate o segrete, foto e dossier scomparsi per porre merda davanti al ventilatore come in un Palmizio esotico dei lunghi corridoi vuoti d'innocenza. In una parola: seppellire, tutto.
"Nella domenica delle salme", ma non solo Faber registra un capolavoro in questo mondo dove tutto può essere il contrario di tutto e di come la gente subisca tutto senza neppure fiatare, figuriamoci reagire. L’intero canzoniere del musicista dispiega e dispensa camei che vanno in questa direzione di valenze libertarie e anarchiche che hanno influenzato una parte significativa della generazione del ’68, quella meno chiassosa e più accorta e che non viveva l'obbligo di andare in piazza a manifestare contro i cellerini o fare a botte con la Polizia. La parte più sana e meno stupida. Quel che più stupisce oggi, è che giovani neanche 30enni, chiedono di Fabrizio, curiosi del suo modo di vedere il mondo, più di quanto si pensi.
Personaggio    pericoloso,

ci    mancava tra il losco ed il brusco
Mquesto agli Spioni di Stato sfuggì sempre, come il gracchiare delle cicale in dicembre sotto la neve. De André, a sua insaputa, era stato MARCHIATO a vita come "Sovvertitore della democrazia", della quiete democratica di chi s'accontenta, senza essersi mai atteggiato ad agit-prop e con la fedina penale pulita come Bocca di Rosa. Niente. Per i Servizi era "personaggio infido e pericoloso" dichiarano nei dossier. Un modo come un altro per perdere tempo. Tutto iniziò a ridosso dell’attentato di piazza Fontana, quando gli attivisti della sinistra extraparlamentare di allora furono sottoposti a perquisizioni e interrogatori, senza spiegazioni o preavvisi. Tra le centinaia d'inquisiti figura un certo Mabellini, considerato vicino a lotta Continua.
 Norme,     dispacci, 
balenghi, caserme
Si legge, in una nota informativa del Sismi: "Il Mabellini è in amicizia con tale De André Fabrizio, non meglio generalizzato, ligure, universitario a Milano, noto cantautore e contestatore", da ridere davvero, immaginare quattro ventri obesi, le scrivanie anni '70 e la macchina per scrivere Olivetti, alta, quella tipica delle caserme dell'epoca durante gli interrogatori dove si volava per cadere sull'asfalto senza averci capito nulla. Con inflessibile logica burocratica, misera e amministrativa, stupirebbe il contrario. La segnalazione coinvolge il musicista nelle indagini, sempre a sua insaputa. Dal ministero dell’Interno chiedono ragguagli al questore di Brescia che aggiorna il fascicolo con le seguenti parole: "Le Questure di Milano e Genova sono pregate di identificare subito il De André Fabrizio e fornire direttamente sul suo conto dettagliate informazioni". Fabrizio, intanto, componeva la "Canzone dell'amore perduto", scriverei per controverso a sua insaputa ostinata e contraria. Dal sublime al ridicolo, talvolta, c'è soltanto un passo, come disse l'imperatore francese sporcaccione che ravanava sovente le proprie cavità auricolari.
Se ti tagliassero a pezzetti, l'istinto della umana devastazione video clip
Sotto osservazione
15 giorni e la questura di Genova redige una carioca quanto bizzarra deposizione a tratti e ticchi loca e surreale. Leggete bene, è spassoso: "Il De André Fabrizio, noto cantautore, pur essendo studente universitario - come se le due cose fossero antitetiche - fuori corso in giurisprudenza e amante del bere quanto donnaiolo libertario (birboncello), si interessa di questioni artistiche, provvede alla incisione dei dischi delle proprie canzoni, ha effettuato qualche spettacolo in televisione, ma non appare mai nei pubblici teatri.
Accompagnato sempre dalla moglie, viaggia a bordo dell’auto Fiat 600 targata GE-293864 ed è titolare di un passaporto. Non risultano precedenti penali a suo carico. In linea politica, pur non essendo aderente ad alcun partito o movimento, è comunque simpatizzante per l’estrema sinistra e frequenta, in Genova, persone note per orientamento o favorevoli ad ambienti Anarchici". Alla vicenda s’interessa il questore di Milano, Marcello Guida, assertore della pista rossa per la bomba stragista, che fa sorvegliare le frequentazioni milanesi del "sedicente" De André.
Il tormento      della Tv
"Il predetto De André, cantautore, viene regolarmente in questo capoluogo ogni mese, alloggiando all’Hotel Cavour in via Fatebenefratelli e ripartendo il giorno successivo, dopo aver preso contatti con dirigenti di case discografiche". Faber continua a scrivere capolavori come "800" scritta con Mauro Pagani (e chi è? il suo arrangiatore musicale) lo stralcio artistico satirico più geniale che abbia mai sentito nella mia vita, ma che l'amico YouTube questa volta non ha. Va pure detto che Faber era assai restio al mostrarsi all'occhio delle telecamere. Lo riteneva un momento sprecato, ma era solo paura d'esibirsi di fronte a delle folle perché lui non si riteneva un attore.
Come si fa a non amare uno così?
"Il De André,
persona
Attenzionata

L’attenzione investigativa sembrava si fosse affievolita, tranne poi a riprendere con maggiore insidiosità quando il "Sismi Antiterrorismo" relaziona al Ministero Interni dell’acquisto di "un appezzamento di terreno in località Tempio Pausania (Sassari) dove intenderebbe istituire una comune di sinistra. Nei periodi di permanenza in Genova, lo stesso avrebbe contatti con elementi appartenenti al gruppo anarchico d'Indipendenza sarda (a parte che su questo argomento era stato pubblicato un servizio su Rai1 ndr) . Il De André è persona nota a codesto Ministero che ne segue attentamente le abitudini." Truffat direi che c'aveva visto bene coi suoi film.
In ogni caso l’antiterrorismo 
ligure accerta che il musicista è "emigrato in data 12/3/1976 a Tempio Pausania" e invia all’Ispettorato Generale per l’Azione Contro il Terrorismo e al Nucleo Antiterrorismo di Cagliari un nutrito rapporto in cui si registra la sua adesione al Comitato genovese per la difesa del divorzio, come se questo rivestisse reati penali e chissà qualòi disegni oscuri contro la nazione, buffoni! Siete solo dei poiveri buffoni che sapevano come ingannare il tempo, per questoi siete statai così capaci ad ingannare la gente, Servizi del piotere occulto, il più forte in quanto invisibile. Trascorso un triennio, un aggiornato promemoria viene inserito dal Sisde in due distinte collocazioni archivistiche: "Brigate Rosse e Varie" e "Fabrizio De André". Siamo alla follia, praticamente, ad un seme dio follia che con le sue canzoni aveva decantato come si fa con l'acido per toglierli il suo potere dannoso, ossia le sue canzoni erano davvero l'unico vaccino contro le porcherie del potere sporco. Scusate, lercio volevo dire.

Misteri puffi
I malevoli investigatori ignorano invece la produzione artistica del musicista, che durante i primi anni '70, quando il terrorismo di sinistra era in incubazione, dedica il 33 giri, "Storia di un impiegato", a un sessantottino deluso tramutatosi in giustiziere proletario, visitato da incubi notturni in cui il sistema si fa beffa di lui e lo utilizza per rafforzarsi: "Noi ti abbiamo osservato dal primo battere del cuore/fino ai ritmi più brevi dell’ultima emozione/quando uccidevi, favorendo il potere/i soci vitalizi del potere ammucchiati in discesa/a difesa della loro celebrazione". Pur senza disporre riscontri minimamente verosimili, questori e agenti investigativi diffidano di De André, ricollegato all’eccidio di Milano e poi trasformato in fiancheggiatore delle B.R. A questo punto manca soltanto l'assassinio Kennedy, il mostro di Loch Ness e la strage della stazione di Bologna, dove pare che invece il Sismi abbia avuto un ruolo "preminente", per usare un termine in uso in quegli ambienti dove non sai mai dove iniziano e dove finiscono e quali siano le loro funzioni.

Cablo        falocchi.
E malsani!
Un’immagine farsesca, irrisoria e goffa, frutto della più gretta ottusità mentale, oltre che di personaggi storti e facili al ludibrio per uno scatto di carriera, come veniva chiamata la promozione perché i cani hanno ringhiato forte. La premiazione diventa il biscottino per il cane ben addestrato a fare il suo lavoro. Più che su Faber, questi "Dispacci", "Dossier" e "Cablogrammi" falocchi e imbrattanti, c'informano più della mentalità retriva quanto lugubre degli estensori che del soggetto in considerazione degli stessi scritti. Inadeguati sul piano professionale e sempre ben disposti a disseminare ombre, terrore, tensione e fantasmi a seconda dei desideri dei loro superiori in un pauroso deficit di cultura dove senza capirlo ti puoi ritrovare con i guinzagli ai polsi delle vene celesti. Quante pirla, amico fragile. 

sabato 9 giugno 2012

L'addio alle "armi" di Don McCullin

Il fotoreporter Don McCullin
Don McCullin,
addio alle    "armi"

di Matteo Tassinari

"Non sopportavo di essere chiamato fotografo di guerra". Per questo l'uomo che ha documentato i conflitti del Novecento dal Vietnam al Libano, ormai ritrae solo luoghi e volti "dove posso mettere la mia anima". Come Kevin Carter, i suoi ricordi sono plumbei come la fuliggine: "Migliaia di fantasmi. Ogni sera, quando vado a dormire, so che sono lì, li sento. Li conosco tutti, uno per uno. Quei volti straziati non si possono dimenticare". Migliaia di fotogrammi nell'archivio di quarantanni di guerre, Vietnam, Cipro, Libano, Afghanistan, Biafra, Ulster, India, il lunghissimo "medagliere" oscuro di uno dei più grandi fotografi del Novecento. Ma non c'è angoscia nella voce di questo signore britannico di 77 anni, semmai tristezza rassegnata: "Posso sopportarli. Ho dormito tante volte di fianco ai cadaveri. Posso convivere con gli spiriti malvagi delle immagini che abitano nella mia casa", rilascia negli anni '70 al N.y.t.. Ora gioca a calcio nel suo prato coi suoi due nipotini, e mentre gioca piange, perché gli vengono in mente i piccoli uccisi con le armi chimiche, che non è morire in modo naturale pur nell'agonia. Penso, in quel caso, subentri qualcosa che abbia a che vedere con l'irrecuperabile, almeno su questa terra.
Cieli wagneriani
Don McCullin ama la sua camera oscura. Ci passa ancora ore ed ore "dev'esserci una ragione per seppellirsi al buio, e io ce l'ho quella ragione". Ma, dopo, ha bisogno di grandi spazi disabitati, di respiro e solitudine. Esce spesso di casa con la fotocamera a tracolla, solo e d'inverno: "quando la luce è cinerea e il cielo è wagneriano". Donald McCullin è stanco di guerra e di guerre. Per lui non è la stessa cosa come per noi. Lui ne ha documentate almeno una ventina. Accadeva 25 anni fa, "quando mi accorsi che non sopportavo più di essere definito 'fotografo di guerra', espressione terribile, che suona mercenaria e complice".
Goya non ha visto quel che ho visto io
Basti pensare che i lavori di Don McCullin erano considerati così importanti, evocativi, realistici, che il governo britannico rifiutò di concedergli un pass da giornalista per raccontare la guerra nelle isole Falkland. Henri Cartier-Bresson, visitando una sua mostra, disse una sola parola: "Goya". "Sì, ma Goya" - commentò il fotografo - "non aveva abitato gli scenari dei suoi massacri dipinti. Io si, ho visto le persone squarciare donne incinta e stampate nelle foto da me scattate. So che non è giusto far vedere quello che la guerra compie nel suo atto. E' orribile ma non scusa a nessuno. Ma sarebbe peggio silenziare ogni guerra. Se la gente vedesse la faccia della guerra, farebbero di tutto perché cessi ogni conflitto, subito. E' sempre una questione di visuale, prospettiva, sensibilità, verità, interessi politici ed economici".
Famiglia cambogiana al capezzale della figlia
La     guerra
di Don     MucCllin
Lcondanna di chi fotografa, è dover far passare attraverso i propri occhi, la propria anima, le immagini con cui cerchi di sconvolgere la tranquillità di quelli che stanno a casa e non sanno nulla di ciò che accade, delle mattanze sparse per il mondo a tutte le ore, di notte, di giorno. Il fardello della testimonianza può schiantare la coscienza, però è necessario averne almeno una per fare questo mestiere ed essere un uomo degno di questo appellativo. "Non contano nulla i sentimenti dei fotografi. Quel che conta è la sofferenza che c'è dentro le mie foto. Come mi sento io non ha alcuna importanza. Ogni dolore deve essere raccontato e le immagini sono più dirette delle parole. So che il mio linguaggio ha un impatto talvolta scioccante col lettore essendo per sua natura la foto più immediata delle parole. Per me fotografare la guerra era una crociata, era il mio destino, era il mio obolo da pagare al Dio della misericordia".
A     queste
parole    si
aggiungono altre che dicono, che l'uomo dovrebbe imparare ad affrontare il dolore perché non è tutto da gettare, direbbe don McCulinn: "C'è un dolore che tormenta e uno che matura. Un dolore che distrugge e un altro che avvisa per tempo di ciò che occorre fare. Dipende, personalmente ne sono persuaso, da come viviamo il proprio dolore, che è uguale a quello altrui, anche se nei fatti poi la realtà fa a cazzotti con la realtà". Gaber stesso sosteneva che gli faceva male il Mondo, ma appena un dente si cariava, ecco che il Mondo e le sue macerie scomparivano. Indicativo delle proporzioni che diamo al valore del dolore, nostro e altrui. E qui ci sarebbero da scrivere fiumi di parole, ma oltre a non aver lo spazio a cosa servirebbe? Semmai m'indigna il potere delle maggioranze fagocitatrici di ogni sentimento umano.
Un lamento eterno sfuggente ad ogni retorica

Non credevo alle mie foto
Nelle sue parole s'avverte il peso dell'anima di chi l'esprime: "Non permetti di divertirti, capisci che il tuo vero compito è essere lì e fare dei tuoi occhi la tua voce, farlo per conto delle vittime, non per i tuoi brividi privati. Vedere un bambino che ti crolla davanti per fame, vederne morire centinaia ogni giorno, non è umano, non è tollerabile", non pensavi fosse possibile. C'è una foto di McCullin che tutto il mondo conosce: un bimbo biafrano albino, testa enorme, corpo internamente prosciugato, sguardo vuoto, assurdamente in piedi, una scatoletta di tonno vuota nella mano scheletrita: "Non riesco più a guardare quella foto. Sono vent'anni che non la stampo. È la fotografia dell'oscenità più caliginosa, torbida, una foto annegata nella fuliggine. Mi rendo conto che queste parole risultino vuote, speciose. Chi non è mai stato in un fronte non potrà mai capire".

Parole del genere, con grande ipocrisia, le abbiamo sentite troppe volte per considerarci innocenti, passandoci sopra come si fa con le foglie per terra calpestate nel nostro cammino imprevisto e accidentale. Ormai siamo abituati al sangue in tv, che pensiamo di vedere un film e pensare che quel rosso sia solo salsa di pomodoro. Abbiamo mescolato la finzione con la realtà fino a non capirci più nulla, perché questa, la realtà, ci era troppo insopportabile e la via di fuga più comoda e alla portata di tutti, si chiamava indifferenza. Il male più orribile di questa umanità per Madre Teresa di Calcutta.

Quando devi fare foto di guerra è come se tu stesso fossi in guerra. "Per noi fotografi devono parlare le immagini. Non ho vinto la mia crociata. Nessuna fotografia ha mai fermato una guerra". Le due foto più famose del Vietnam, l'esecuzione del Vietcong, la bambina bruciata dal napalm, scattate da due grandi fotografi non hanno fermato quei massacri. "Ci sono guerre, oggi? Si, ce ne sono", riprende Don McCullin "ce ne saranno domani. Quando fotografavo le guerre, l'ultimo rifugio del mio ottimismo naïf era che la domenica mattina, dopo aver lavorato per decenni al Sunday Times, un primo ministro, vedendo una mia foto, si facesse cogliere da un dubbio di coscienza e facesse di tutto per far cessare una, dico una guerra. Tutte menate per non vedere fino in fondo la disperazione del non detto per incapacità. Credetemi, da casa è facile, in guerra, con gente sbrancata, non sei più te stesso, ma quello che non farò mai è cercare di convincere qualcuno delle nostre foto, poveri folli che hanno scelto di stringere la mano alla guerra. Che pazzia!"
India, la nuova grande potenza, come la chiamano i mercati finanziari
Stravolto dall'orrore
A chi ha
lasciato i campi di battaglia, non lo sa. È amareggiato da quel che vede sui giornali. Ora sono anziano, con un bagaglio di ricordi pesante. Ma questi fotografi embedded, al seguito degli eserciti, non capiscono che è un trucco, che è tutta censura oggi? Ti fanno vedere quel che vogliono loro, e intanto non si vede una sola foto dalla Siria che brucia viva. Bisogna far vedere alla gente quel che non può vedere, quel che nessuno può sopportare di vedere o questo mestiere non ha senso. Ricordati che una foto parla molto di più di 4 o 5 mila parole". Ed è verissimo! Indebolito dalla guerra, ma non pentito, Don McCullin oggi è un uomo arrivato, logoro, direi allo stremo. Perché gli piaceva fermare la realtà: "Ho fatto almeno una cosa irragionevole: distruggere il mio primo matrimonio, per poi vedere mia moglie ammalarsi e morire il giorno stesso delle nozze di nostro figlio. Ho mostrato tante tragedie agli altri, la vita ne aveva una da mostrare a me. A proposito della Siria. La si muore al ritmo della mattanza. Le agenzie stampa parlano di 200 persone uccise al giorno, ma chissà quanti sono di più i deceduti per la guerra, sono i dimenticati, i morti dell'oblio, chi viene falciato da un machete senza che nessuno reclami il suo corpo o un briciolo di giustizia per quella persona o donna o bambino o anziano che sia".
Rwanda, 1994. Un milione di morti in 8 mesi
Il      massacro
dei        massacri

Il Rwanda, per pochi mesi, diventa l'abisso dei tormenti umani, l'incubo dell'angoscia in uno scenario d'oltretomba. E' il Paese del patimento, dimenticato da tutti, perché tutti sapevano. I mitra parlano, i pappagalli ruttano. I bambini non giocano, sparano, imbracciando Kalashnikov più grandi di loro. Li chiamano i "bambini con l'anima morta". In poche settimane vengono massacrate un milione di persone. Si dice che sia il più cruento dei massacri, il più orribile, quello di cui si ha ancora paura ne solo nominarlo. E' il simbolo di tutte le sconfitte. E' l'apocalisse.  Il genocidio del Rwanda, passerà alla storia come un momento di pazzia assoluta e totale, spaventoso perché senza senso, neanche ragioni di guerra o militari motivano quell'ondata di violenza devastante, ammesso, e non concesso, che la guerra e la milizia in guerra abbiano senso. Uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo. Dal 6 aprile alla metà di luglio,  per circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente, a colpi di armi da fuoco, machete pangas e bastoni chiodati, 1milione di persone. Nessuno è risparmiato. Ripeto, senza neanche un motivo folle.

Sotto questo
Cielo eccelso
Il genocidio, ufficialmente, viene considerato concluso alla fine dell'Opération Turquoise, una missione umanitaria voluta e intrapresa dai francesi, sotto autorizzazione ONU. Le vittime furono Tutsi. L'idea di una differenza di tipo razziale fra gli Hutu e i Tutsi. James Nachtwey, un altro grande fotoreporter di guerra, ha sacrificato se stesso per documentare guerre, povertà e macellerie sociali. Ha vissuto in prima persona numerosi drammi dovuti all’essere sempre in prima linea e quando scrivo prima linea, intendo per davvero a pochi centimetri da un cecchino o tra i bombardamenti. Per citarne alcuni: Somalia, Sudafrica, Bosnia, Russia, Cecenia, Kosovo, Romania, Brasile. E Rwanda, lui c’era sempre quando era meglio per chiunque altro non esserci affatto. James è testimone di conflitti a fuoco, migliaia di linciaggi da parte di uomini armati di machete contro un suo simile, di carestie che lentamente uccidevano bambini. Il teatro era il Rwanda, il massacro del 1994, ma passato alla storia, anche alle impressionanti foto di James Nachtwey, come il più cruento, il più feroce dei crimini di guerra avvenuti sotto questo grande cielo.


Legendary photographer James Nachtwey, testimone del massacro ruandese 

sabato 2 giugno 2012

Rocky horror picture show

Non sognatelo: siatelo
T*R*H*P*S*
         di Matteo Tassinari
Apoteosi dark! Il "Rocky horror picture show" ha portato in scena e in trance il popolo della notte - e non solo - dopo aver irrotto l'immaginario. Azzurri e rossi gli occhi, tacchi a spillo, forcine per capelli, giarrettiere, guêpière, reggicalze e bustini serrati sulla schiena metallicamente. Ancora. Lacci, laccioli, zeppe in lattice per assottigliare i fianchi, ombelichi in vista, unghie affilate e rosse, ma anche laccate verdi, grandi cappelli e pelle, tanta, ma tanta pelle da cui assaporare pori di vita altrui come vampiri. Si, fa un pò schifo, ma anche no. Una fisarmonica in stile "castello ululì, lupo ululà". Tonalità in gradazione armonica e oscenamente sguaiata, una stordente e contagiosa, febbricitante quanto mai dilagante intonazione, come una cantilena.

Ci siete stati 

anche voi nel 

vicolo?
Questo, può anche, anzichenò - modulare le note del "Rocky Horror", con la sua carrellata over-size di brani cult che hanno il senso dell'attrazione del sex-appel Transilvania, oltre ad aver segnato una delle compilation rock più ganze e audaci, originali, osé e avanzate. Da"Time Warp" a "Sweet transvestite", "I'm going home" a "Double feauture", se riuscite a mettere da parte tutti i vostri tabù, impresa gargantuesca, non avete che l'imbarazzo della scelta, come in un negozio hard core. Tanto ci siete stati anche voi. Non è questione di chi piscia più lontano, suvvia. E' questione di quante perversioni hai e non le vuoi far conoscere. Non è poi una cosa così scandalosa, su.
Centinaia di attori si sono cimentati col personaggio di Frank-N-Furter, ma nessuno ha brillato quanto Tim Curry

Frankestein     Place

Il musical di Richard  O'Brein, è un inno alla bisessualità, alla trasgressione, all'imprevisto che genera mostri. Un'opera teatrale dal ritmo gargantuescamente mulatto, meticcio, scene gonfiate da un'inesauribile vitalità pandemica e oltre modo contagiosa. Ci si trova soggiogati dalla musica in mezzo a raffiche di doppi sensi e doppi sessi come se piovesse.
Il potere
delle immagini 
E infatti piove a catinelle quando Brad e Janet, due sposini impacciati e candidi come il lieve nevischio di febbraio, a causa di un guasto alla vettura e bagnati da un nubifragio oltre che angosciati da saette di lampi rivisti in "Frankenstein Junior", finiscono, non so se per loro fortuna o loro malgrado, nel "Frankestein Place", dove uno più uno non fa sempre due, a volte dà un "uno più grosso".
Come nelle memorie "Drummondiane" del poeta Carlos De Andrade, in cui è insito l'erotico poiché, come dicevano gli antichi: "Eros è il socio delle Muse" nel piccolo museo sentimentale, dai monti di Venere fino a quelli da scoprire. Come Drummond, il "Rocky Horror", proclama la libertà delle parole e musica e sesso, una libertà idiomatica che crea modelli idiomatici ai limiti delle convenzioni, seguendo la libertà proposta da Mario de Andrade. Con l'istituzione del verso e movimento Pelvico libero, accentua la libertà consentita, dimostrando che questo non dipende da un metro fisso o imposizioni coatte e forzatamente prescritte a tutti da chi detiene il potere mediatico delle immagini e del "bon-ton" sessuale benpensante.
Riff Raff, interpretato da chi ha scritto il RHPS, Richard O' Brien

Alè! Tacchi a spillo arrancano sull'acciottolato dismesso, ma vezzoso, di Palazzo Grazioli, il padrone di casa accoglie tutti gli ospiti con cortesia e terrore, soprattutto alte 1,80 e con la 3 di seno. In tutto una 20ina di anime sbandate di maggiorenni e minorenni, non importa, per il Rocky Horror Bunga Show! Succede che ad ogni portata del film, entri in scena un'inframezzata di regalie.
Anelli, collane, monili pregiati, Apicella sulle note di "Time Warp" si scatena gli istinti bassi del transone, smorzato ormai dal romanticismo proustiano, quella malattia che colpiva i piloti di F1 di nome Alain, si lascia andare all'odore dei sensi avviluppanti. Una cosa davvero orribile. Così orribile, che in molti con la fantasia e nel silenzio nebbioso delle loro coscienze vorrebbero provare. Almeno una volta, una volta a far due passi nel vicolo buio. La nostra sfortuna è che siamo ai tempi del Bunga bunga, quindi dovremmo avere gli attrezzi culturali per affrontare argomenti raffinati, secondo avvocati alla Riff Raff, in arte Niccolò. 

Swet Tranvestite
Il Battello ebbro
Metafora,   immagino, del "Battello ebbro" di rimbaudiana memoria. Frank, creatura onirica, famelica e gran puttanone su cui si depositano tutte le ambiguità dell'umano senso sessuato, del biologico pianeta dei fluidi, gioca a chi è bravissimo a scacchi, ma è un disastro nella vita quotidiana. Con lui uno stuolo di servi più macabri che originali o forse il contrario. Da Riff-Raff (dalle sembianze di un maniaco pluriomicida con problemi intestinali), Magenta (una vera casalinga dark), e Colombia (il disprezzo allo sbaraglio) e fantasmi similari vari, tutti iniziati alla poetica del "non guardate, fatelo!".
       Commedia
       gotico    noir
pare suggerire sibillinamente la commedia gotico noir. La gente, in tal caso, si trastulla con seghe elettriche (aggeggi meccanici) e vive di ossessioni e di un'ossessione in particolare mordendo polvere. Il Rocky Horror cristallizza qui la sua eccezionale portata caciarona e cafona, grazie alla regia di Sharman, che fissa sullo schermo quel meraviglioso baraccone di alieni transvestiti, regalandoci risate glam, godibile accento british dei dialoghi e l’impressione di essere catapultati in un mega-frullatore di cinema e fumetto di genere, un bunga bunga senza fine, come le 5volte5 che l'italiota Berlusconi è stato eletto dai ostri connazionali a Palazzo Chigi. In una espressione: ingrati senza rimorsi e con tanta passione ed energia nell'errare e affusolato in un groviglio di addomi ventricolari che sputano materia verde filante. Il resto è già poesia punk rock, "ovvero il rock'n'roll è la forma espressiva più brutale e diretta, per arrivare al brulichio nello stomaco, un afrodisiaco pestilenziale, un ammasso di suoni che subbugliano la musica preferita di tutti i delinquenti della terra", diceva Frank Sinatra, uno che di delinquenti se ne intendeva.
Creatures
of the     night
Richard O'Brein
Richard O'Brein, autore del "Rocky horror picture show"
e interprete del maggiordomo Riff Raff


Riff-Raff 
dal pianeta
Transilvania
La creatura bionda dagli occhi azzurri con caschetto e frangetta a metà fronte e un corpo scolpito nel marmo che nasce dal brodo primordiale di una vasca iperbarica protetta da una agghiacciante lastra di materia liquida e attaccata a quattro catene, facendosi schermo di una luce livida rendendola incandescente, mentre un complesso tappeto sonoro si stratifica sempre più nell'aria con la forza di mille agonie. Tutto avviene in contatto con la galassia Transilvanya, una nebulosa pletora di spazi indefiniti dove l'insieme costituisce il tutto. Il resto non esiste, consapevoli che la vita si crea nel delirio e si annulla nella noia.
Time warp, un passo qui e un altro la.
Poi spingete, ma una spinta pelvica (Clip)


Che belle froce!
Si diventa    partecipi di tutto quel che di umanamente trasgressivo si può ritrovare nello scibile delle creature. Una lettura preziosa in questi tempi di confusione ideologica sessuale e di precetti claustrofobici che impongono modelli che altro non sono che deprimenti strumenti per catalogare a proprio piacimento i gusti, gli odori, i desideri, le tendenze di cui si è diventati "vittima". Una vero slavina di disagi, asperità e imposizioni che generano solo frustrazione. In realtà, chi gridò allo scandalo alla prima della pièce teatrale lo fece perché si è detto: siamo tutti impostori che sopportiamo. La lotta contro il perbenismo benpensante e le pruderìe allineate conformiste, è sempre alta. Guardate che froce!
Il dottor transessuale Frank-N-Furter, la "maggiordoma" Magenta e Janet
Janet,   Brad, 
Magenta,    Frank, 

Un bijou del   Kitch più noir grottescamente spigliato per quanto disinvolto, puntuale come un fulmine, soprattutto per chi vive l'esperienza in teatro e non al cinema, il rodaggio dell'emozione sarà ancora più familiare e consueto. Intanto, dal suo laboratorio, nasce Rocky. Un Omo sostanzialmente decerebrato, acefalo, privo di capacità di discernimento, insomma, un corpo da usare e riusare, fino al crollo definitivo. E siccome Frank, il travestito della nebulosa di Transilvanya non è mai sazio in quanto sessuofobo bagnato di santa sangre, deciderà di spassarsela anche con i fatati sposini seducendoli di notte, prima Janet e poi Brad. Frank però non resisterà a lungo, essendo un alieno, come lo sono Magenta e Riff-Raff i quali, esausti e vigliacche carogne, decideranno alla fine di neutralizzarlo, tornando nel "Pianeta Transilvania", proprio laddove si riuniva la Trilaterale e questa invece è verità, l'oscura finestra, lo squarcio tagliato da lama affilata. Un risveglio traumatico e desolante, su cui neanche l'inconturbabile e imperturbabile narratore dall'aplomb britannico darà il tracollo, che rotolerà. Il "Rocky Horror" è un monumento alla psichedelia, al travestitismo issato come emblema di una rivoluzione sessuale "sorridente" e cinica, un gesto all'amore gargantuesco. Oppure opera museale e parallelamente delirante nella sua concitata effervescenza briosa esuberanza. No, niente Alka-seltzer, semmai un chilo di Bicarbonato per cacciare un rutto che strapperà un applauso agli ospiti del "Frank-N-furter Palace" in Transilvanya, nel Medioevo principato, oggi parte centro-occidentale rumena conosciuta come Ardeal, luogo ameno, esilarante, ma luogo smarrito.
Afferra dal  basso,


e tira forte!



Contagia, appesta


e influisce

Un tocco  di teatro nero mai scritto prima, ma neanche dopo, con un risultato tutto tondo ed endorfinico. La spettacolarità a cui è arrivato il "Rocky Horror" negli anni, non hanno permesso che s'infiltrasse alcun dubbio sul musical. Semmai una certezza. Il musical, semplice, ritmico e melodico "afferra dal basso e tira forte" per dirla con glosse style punk-rock. Fa parlare di sé come Marco Pannella. Contagia e appesta come un'infezione a gittata nucleare contaminatrice. Scalza. Ammacca. Disorienta come Sgarbi. Come uno scontro frontale contro Giuliano Ferrara, la provocazione che arriva dritta ad allagare la platea di opzioni, balli e possibilità se si ha la fortuna di aver vista la pièce teatrale, altrimenti ci si deve accontentare del dvd, che da ma non come in Teatro. Un vero momento dove è concesso perdere le coordinate, per offrire spazio alla nostra parte folle, anche di chi si mette le pattine per entrare in salotto. Dai, diamo aria ai polmoni ogni tanto, siamo uomini e donne, mica pezzi di coccio!

*Le quattro V*

Cinque V: Vita, Virulenza, Virilità, Vitalità, Violenza per scalzare perbenismo, conformismoipocrisie e pruderìe, dando così ragione a Levi-Strauss: "Solo la musica e il ballo collettivo sono linguaggi primari. La parola viene dopo" e a George Steiner, che ritrovava, a suo libero dir, nei fenomeni musicali, un residuo dell'anticipazione spazio temporale dei costumi. Forse per queste due interpretazioni, il 26 settembre 1975 nelle sale cinematografiche americane (la prima fu a Los Angeles) debutta il "Rocky Horror Picture Show", un musical low-budget tratto da uno spettacolo teatrale (quasi omonimo, basta togliere la parola "Picture" dal titolo) che aveva fatto furore fin dal suo debutto in un piccolo teatro del West-End londinese, nel giugno del 1973, diventando in breve tempo un vero e proprio fenomeno. Quasi ovunque il film fu un totale disastro. Nel 1976, però, comincia a verificarsi uno strano fenomeno. Nelle sale dove la pellicola viene proiettata ci sono solo poche decine di spettatori, ma sono gli stessi della sera prima, e di quella precedente, e della precedente ancora.
Leggendaria locandina originale, 1976 Londra


E prima? Com'era?

Così i distributori  della 20th Century Fox, che scemi non furono, capirono che la chiave del successo del "Rocky horror", andava ricercata tra gli spettatori delle proiezioni di mezzanotte. Eclettismo sregolato. Inizia il cammino del musical Cult più inopinato, prodigioso e inusitato che mente umana abbia musicato. Oggi, il "Rocky Horror Picture Show", non ha perso un briciolo del proprio smalto e detiene il record di pellicola maggiormente proiettata nell’intera storia del cinema. Il merito sicuramente più grande fu di rendere il musical (e di conseguenza anche il film) interattivo. Chi ha assistito ad una rappresentazione teatrale di una qualunque compagnia, dalla Compagnia della Rancia al London Musical Theatre, sa che in alcuni momenti il pubblico deve partecipare attivamente alla storia con oggetti o semplicemente gridando all’unìsono: “who?”. Fermo restando che il primo vero tributo da pagare se si vuole assistere allo show è vestirsi come uno dei personaggi: calze a rete strappate, vestiti neri, trucco pesante, chioma scapigliata, tutto quello che serve per partecipare ad un rito horror-kitsch. Fidatevi, è un’esperienza, non freschezza inettitudine.


Oh! Oh, ma che froce!

Un primato che la dice lunga sulla sua capacità d'irrompere lo stagnante e viscido immaginario televisivo e filmico, a scapito dei suoi detrattori. Potrà pure fare schifo, ma indifferenti, di fronte al "Rocky", non si rimane. E comunque, lasciatemi scrivere che non è scandaloso il "Rocky Horror", come molti van dicendo, ma è immorale quanto indecente che in così pochi lo conoscano. Nulla è stato più come prima. Ma com'era prima? Era "un mondo di verso, ma fatto di sesso, chi vivrà vedrà!".
Richard O'Brien, autore del R.H.P.S.