Notti notturne

martedì 27 agosto 2013

L'amore s'è fermato a Cesena

Alvaro Tassinari, morto nel 2005 e babbo dell'autore di questo post
Matteo,
sei pronto!
       di Matteo Tassinari


Ero tra l'avvilito e lo srotolato sul divano di casa per leggere un giornale quando squilla il telefono e inizia a tremare il mondo. Sono le 13,30 del 3 gennaio 2005. Lo ricordo esattamente perché sentivo nell'aria le note che aprono il Tg1 che inizia puntuale a quell'ora. Guardai mia mamma e chinammo entrambi il volto. Risposi al telefono, essendo il più vicino al ricevitore.
La morte del padre di Zeno è stato uno degli eventi
che ha segnato maggiormente la coscienza dello scrittore 
Alzai la cornetta e una voce sconosciuta mi domandò: “Pronto, casa Tassinari?”. "Si", risposi. “E' l'ospedale Pierantoni, reparto chirurgia intensiva. Lei è il figlio di Alvaro Tassinari". "Si". "Mi dispiace, ma la devo informare che suo padre è morto pochi minuti fa”. Il resto non lo ricordo. Da tre giorni mio babbo era ricoverato sotto “Osservazione permanente”, per una caduta avvenuta in casa alle 23,30 del 31 dicembre 2004. Cadde a terra tremante e le convulsioni accompagnate da una tosse nervosa davano il senso della drammaticità di quell’ultimo dell’anno, quando in mezzo ai botti e alla festa circostante all'ambulanza 118 che saettava a sirena spiegata verso il Pronto soccorso in mezzo al traffico festoso. Mio babbo in una brandina con la maschera d'ossigeno e altri tubi che non saprei dire. Da mordere la vita coi denti e farla sanguinare e poi bere d'un sorso tutto quel fiele.

Lo stadio Manuzzi di Cesena, dove ogni domenica,
quando militava in serie A, fra me e mio babbo scendeva la pace armata

La      morte  vi angoscia?
Con mio babbo (non papà come dicono in Lombardia, qua in Romagna diciamo babbo, come balbettare per due volte la lettera B) non avevamo molti punti in comune, per la verità non ne avevamo proprio alcuno. I nostri canali da sempre si erano interrotti e la comunicabilità era pressoché azzerata se non nulla a parte le urla e le botte allegate agli insulti. Mi picchiava spesso e io gli davo tutti i motivi per darmene il doppio. Non gliene risparmiavo uno e lui giù botte. Come un dare e offrire. Entrambi speravamo nello sconto dell'altro. Quando tornava a casa dall’ufficio, uscivo a giocare a pallone in strada. Oggi sono ad un mese dalla mia 50esima primavera.
La famiglia secondo Keith Haring
Non ho figli,
ma una cosa m'è chiarissima. Vostro figlio o figlia non cercano il vostro amore. O meglio, prima vogliono vedere che voi due - genitori - vi amate, poi certamente, vogliono anche essere amati. Ma prima esigono l'autenticità del vostro amore. Osservano con curiosità se c’è armonia o no fra di voi, se la musicalità della grazia li unisce oppure stanno insieme per interessi e hanno paura di fare scelte per mancanza di coraggio. Cosa me ne faccio di una carezza del babbo se un'ora prima l'ho visto massacrarsi di botte con mia mamma? Come faccio a parlare a mia mamma quando a mio babbo gliene ha dette peggio della Santanché?
macchemefgrega.... so coatta!
Non regge, su. E a dieci anni si è tremendi su queste cose. Non si scherza. Si è molto esigenti in quel periodo, lo si è senza accorgersene, anzi pretendiamo di capire la verità sui sentimenti. O si è seri o niente. Perché le cicatrici aperte nei primi anni, sono le più dolorose e le più difficili da medicare, talune rimangono per tutta la vita devastandola. Mettendo da parte nozioni pedagogiche genitoriali elucubrate di un “verginello” di 50 anni tondi come un marone per di più senza figli, torno alla telefonata dall’ospedale.

RankXerox, creatura di Stefano Tamburini,

geniale fumettista e designer

La nostra letteratura
La mia vita è costellata di morti, ma tanti. Se mi volto, dietro le caduche spalle, vedo centinaia di Croci. Quasi tutte al di sotto dei 30 anni. Morti di Aids o cause e concause legate all'uso di droghe pesanti. Erica, una carissima amica di 20 anni sosteneva con bizzarria pirotecnica e genuina sincerità, che i tossici erano i più scaltri, i più furbi, "i migliori" diceva, perché la vita che facevamo, non l’avrebbe condotta nessuno, troppo dura per tutti, ma non per i tossici. Loro la "conducevano".
Stefano Tamburini
E dalla sua posizione, dico solo che sua madre si bucava assieme ad Erica, aveva ragione. Se ti fai le pere per un po’ di anni come me alla fine degli anni '70, capisci che hai solo due opzioni: una è smettere, l’altra il camposanto. Erica è morta di aids a 27 anni. Davide, 28 anni, mi ha lasciato nel 1991 sempre per aids. Era il classico adolescentone e amava Liberatore, Pazienza, Tamburini, Manara, Pratt e tutta quella fauna umana che intorno ai primi anni 80 riempivano fogli bianchi di fantasie colorate, cangianti o monocromatiche che ci permettevano di volare, commuoverci, ridere e prendere spunti per nuove avventure sub-urbane. Era la nostra suburbia, la nostra letteratura, il nostro vivere. Quando hai l'abitudine d'infilarti l'ago nelle vene per spararti eroina almeno tre volte al giorno brown o bianca, di Balzac non te ne fotte un fico secco, figuriamoci di Fiodor Mikhailovitch Dostoievskij. Ma chi cazzo era? Un pusher? Aveva roba buona almeno?
Alvaro Tassinari, mio babbo, ex Battaglione san Marco distretto Venezia
L'amore
 respirato 

Posso dire di aver convissuto con il senso della morte sempre molto vicino, acceso, luminoso, per nulla dimenticato, vivace eccome. Non mi angoscia. Angoscia semmai chi vorrebbe rimuoverla, aggirarla, esimerla, scansarla, schivarla. Chi vive col terrore della morte, è proprio chi sceglie d'ignorarla in mille modi. Chessò, comprando una borsetta Kelly di Hermès, icona di stile ed eleganza da 10 mila euro l'una, un Rolex Sub Mariner argentato, una mangiata pantagruelica di pesce, un Suv Audi, un I-Pod Mc, questa gente è terrorizzata al solo pensiero della signora con la falce, che poi così non è.
Nato pescatore, nelle vene al posto del sangue aveva il mare

Sorella morte
In ogni caso è argomento
da non discutere. Tabù. In questo, le culture orientali sono più emancipate di noi, integrando, nel ciclo della vita anche la morte fin dalla nascita, proprio perché non assumi l’aspetto mostruoso che s'è modellata nelle “civiltà” cosiddette avanzate. Se ne parli, passi da menagramo e giù un boccale di birra e una tiratina di coca, per aumentare lo stordimento e l'oblìo, il rimuovere costantemente la grande paura, della morte, grande istinto a favore della vita. Non so come sono arrivato qui, volevo parlare d’altro e mi sono perso. Succede spesso a chi scrive molto e per la fretta commette errori da matita rossa. Come quando parti per Panama e ti ritrovi a Samarcanda passando per Macondo sulla Via della Seta.
Il luogo perfetto per andarsene, e saper di dover tornare 
Ulteriore conferma che non siamo fatti a compartimenti stagni, ma viviamo immersi in un crocevia di esperienze, un coacervo di input, dati, ricordi, sconfitte, conquiste, e siamo figli di noi stessi e questo c'incute soggezione, fremiti che vanno in qualche modo gestiti, da qui tutta l'innocente insicurezza umana, la tenerezza dell'uomo alla disperata ricerca di un senso a tutto, della salvezza per conquistare e consegnare alla morte una goccia di splendore.

Qui non so dove fosse. Forse al "Centro Nautico" di Rimini
Mezz'ora    di sfizio, cent'anni     di guai
"Vince", o meglio bara, quindi perde, chi maschera tutto ciò, chi si vergogna delle proprie tenerezze e ansie, chi si avvilisce delle proprie rovine e cerca goffamente di nasconderle, chi ha terrore delle proprie debolezze. Fino a quando non ci si trova faccia a faccia con la dipartenza, nell'ora del Mistero più grande che ci ritroviamo a vivere. Perché vale per tutti. È la lotta che ciascuno di noi, credente o no, un giorno si troverà a dover combattere a tirare calci al vento. O qualcuno forse è immortale?
Jorge Luis Borges 
Eppoi, temere la morte è far professione d'ateismo, affidandomi a Jorge Luis Borges quando scrive: "La morte è un'usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare". Anche i peggiori, coloro che hanno commesso guai contro l’umanità intera, che non provengono da malvagi misantropi senza scrupoli, ma da coloro che la amano e che intendono guidarla o migliorarla. Mezz'ora di sfizio, cent'anni di guai.
Lupini, liquerizia,
2 gassose
Ritorno all’argomento principale, mio babbo. Che ci amavamo ne ho già parlato, nonostante un rapporto difficile. Però c’era un momento preciso che entrambi ci dimenticavamo di tutto. Dalle paranoie all’incomunicabilità, dalle assenze alle mancanza d’affetto reciproca, dalla freddezza all'indifferenza. Questo strano fenomeno avveniva la domenica pomeriggio, quando alle 12 partivamo dalla stazione di Forlì per andare a vedere il Cesena che all’epoca militava in serie A. Avevo 13 anni e col babbo, ch’era stato scelto dal battaglione san Marco per la sua stazza corporea non indifferente, mi sentivo sicuro anche quando la curva esplodeva per un gol o c’erano delle risse fra tifosi.
    E sangue freddo

Una volta mi sono infilato sotto il suo cappotto e ricordo ancora che ha gridato a voce alta alla gente che premeva: "Oh, calma, qui c'è un bambino". La ressa a quell'età fa paura davvero, che paura in tutto il corpo, però con mio babbo sapevo che non poteva succedermi nulla di brutto. Eravamo noi i più forti, perché da bambino ragioni così, semplicemente. Per questo i bambini sono santi. Solo per il fatto d'essere bambini e vivere.
Io, all'età di 10 anni
Lentamente, la fiesta sfumava
Compravo i lupini, le sementine con tanti cordoni di liquirizia e due gassose. Tutto quel movimento di gente, cori, calca, una fiumana che sembrava pioverti addosso dagli anelli più alti dello stadio, una moltitudine di persone che in qualche modo mio babbo arginava per proteggermi. Mi ha dato vibrazioni indimenticabili, sensazioni che non vivrei più come allora, si è troppo sguarniti a 13 anni, quanta vulnerabilità per porre freno a quelle emozioni così dirompenti, appassionate, irrefrenabili da travolgere ogni atomo o molecola della mia giovanissima esistenza. E' tutto più amplificato, abbondante, fragoroso. E' quasi tutto un orgasmo. Ma la lotta più dura era: in quale settore dello stadio andare? Io preferivo sempre la curva degli ospiti, perché m’incuriosiva vedere i tifosi della squadre di altre città: Juventus, Milan, Inter, Genoa, Cagliari, Bologna, Verona.
L'amore materno che ti da una Curva è come quello del tuo migliore amico

In quale curva andare?
Mio babbo, al contrario, preferiva frequentare la curva del Cesena, ma alla fine me le dava quasi tutte vinte. Le radioline accese, i gol che arrivavano dagli altri campi, esplosioni trascinanti di tifo improvvise apparentemente immotivate perché accadevano altrove, in un altro stadio. Metti che l’Inter avesse segnato contro l’Avellino che lottava col Cesena per non retrocedere in serie B, cose di questo tipo. Vedere la gente che gioiva senza che apparentemente non fosse successo nulla è qualcosa d'impagabile, di stupefacente, di grazia immortale.
In questi casi scoppiavano dei boati impetuosi come le tensioni che c'erano dietro, il nervosismo di una settimana e lo sfogo domenicale. Allora tutti a chiedere "cos'è successo?", "Ha segnato il Bari?", "Ha pareggiato il Como?". "E' rigore per il Verona". "E l'Avellino?". Che movimento d'onde attraverso quelle antennine incollate alle orecchi. I coriandoli, carta igienica, botti, tamburi, bidoni dove menarci sopra, bombolette simili ad uno spray che emettevano suoni assordanti. Era la savana per i miei occhi. Una sarabanda da tramenio. La mia percezione era quella di ritrovarmi in mezzo ad un evento epocale, quando era una semplice partita di calcio. Partecipare insieme a tanta altra gente ad un grande avvenimento finalmente in pace con mio babbo, era come toccare l'apogeo. Capisco ora quanto possa essere pericolosa qualsiasi maggioranza accomunata da un ideale e da un cretino come l'arcoriano, tutto è incontrollabile, per questo sono nettamente dalla parte delle minoranze, ogni minoranza, dagli Indiani d'america ai Rom. La grande fiesta finiva col fischio finale della partita. E io intuivo che la routine, minacciosa, stava lentamente ritornando, creando in me un senso di tristezza che mi faceva pure piangere senza farmi vedere da mio babbo, una delusione che il mio cuoricino ne languiva.

Un bacio, vecchio mio
Ma ancora la samba non era finita. C’era infatti il viaggio di ritorno in treno e si trovava sempre qualcuno con cui scambiare le opinioni proprie sulla partita appena vista, tanto quel treno a quell’ora era "gonfio" di tifosi che tornavano nelle varie città e campagne romagnole dallo stadio Manuzzi. La fiesta era finita un pò per tutti e una settimana di lavoro o studi, minacciava l'arrivo. Nel 2005, Alvaro, è morto. Abbiamo avuto un momento di ripresa, pochi giorni prima della sua morte. Di notte ci trovavamo su di una brandina rubata in un bagno balneare di Rimini. Seduti l’uno accanto all’altro a raccontarci le intimità che non eravamo mai stati capaci di confidarci in 42 anni. Sembra la sceneggiatura di una commedia drammatica, ma i fatti andarono proprio così, non so che farci. M'accorsi che mio babbo stava davvero molto male e anche lui lo capì, capiva che era questione di ore. A quel punto non ero più un bambino e lui sapeva il mio intuire, questa combinazione sciolse anche le incrostazioni più resistenti durate nei decenni. Eravamo, senza enfasi o retorica, un corpo solo. Dopo anni a farci la guerra, sapevamo che avevamo rimasto poco, e allora volevamo sfruttare al meglio quello che il Signore ci aveva lasciato per dare una svolta alle nostre 2 vite, così unite in quel frangente, da sentirsi compartecipi di tutto. Perché il sogno di ogni amore è che il miracolo non abbia mai fine. Forse è solo una promessa, ma una promessa sacra è molto più potente di un sogno.


Con l'affetto degli

ultimi giorni babbo
Ho la sensazione che ci rincontreremo presto babbo, per certi aspetti è la storia più magnifica che possiamo fare per riacciuffare il discorso iniziato in quelle poche e mistiche notti nello studio a sedere l'uno accanto all'altro. Che bella voce avevi in quelle sere, o notti, babbone mio, dolce, preoccupata per me, affettuosa, simpatica e premurosa, sempre per me: "Matteo, quando sei in difficoltà rivolgiti alla nonna Maria". Eri quello che non sapevo, solo mancandomi ho scoperto quello che eri, nelle mie fondamenta della vita che mi ritrovo a vivere da sciancato. Mi sei stato presente per 45 anni babbo, e non abbiamo legato molto, se non quei 10 giorni finali, come se Dio ce li volesse far vivere. Io vi vedo una grande generosità, in questo "santo" atto. Se vado avanti mi perdo e divento palloso. E tanto per scrivere qualcos'altro e fare la chiusa, ti lancio un bacio babbo con l'affetto degli ultimi giorni. Paradossalmente, diventati i primi.

giovedì 8 agosto 2013

La figlia del boia

Questo post l'avevo già pubblicato, ma per i soliti motivi di cui non si conosce mai il motivo, non me lo sono più ritrovato. La storia non volevo lasciarla cadere, per questo lo ripubblico
   Piangerai innocente
         le colpe   del padre      
Cuore di  babbo. Luce dei miei occhi. Vita mia. Pure i criminali sanno dire queste cose.
Papà Ratko le diceva alla sua Ana. La più grande. La preferita. La chiamava “figlio mio”.
Figlio anche se era una figlia, perché in certi mondi non c’è modo migliore d’amare una
primogenita che considerarla un maschio. Il generale e la bambina. Ratko la coccolava,
coccolato da lei. Ana l’abbracciava, ed era abbracciata da lui. Lui le dava da pulire la Zastava,
la pistola dell’accademia militare, dicendogli che un giorno l’avrebbe regalata per donarla al
suo primo figlio, suo nipote.
Alienazioni mentali di questo tipo il mondo ne è pieno. La mente è molto più ampia del cosmo. Lei era entusiasta per questa raccomandazione e lo dimostrava energicamente parlando fiera alla gente di chi pensava fosse suo padre, un generale della Federazione Serba, meglio di un attendente, olio e acquaragia, contenta d’ubbidire a suo padre, lustrava con stracci la Zastava per il giorno della nascita del suo primo figlio. La Zastava sparò, ma non a quel bambino tanto atteso e mai nato, ma l'usò contro se stessa sparandosi alla tempia e sparire per sempre, come se si sentisse responsabile anche lei degli eccidi del padre. Succede, eccome. Succede spesso. Quando certe anime sono così fortemente immacolate, come quella di Ana, capita che si accendono forze
divine, oltre non vorrei dire su questo misterioso punto.
Mladic e le sue milizie


L'orrore mitologico      



Poi accade che Ana
diventa grande. Meno soggiogata e infatuata dalla figura del padre per alcune notizie che arrivano come un violino rotto e scordato che emette stridenti rumori insopportabili al sol udito. Meno allegra. Più claudicante e taciturna quanto ombrosa. Meno bella, anche. Iniziò a dimagrire e non parlare più con nessuno della sua famiglia. Cosa fosse successo nella mente della figlia del generale è materia di un romanzo eccezionale, opera della scrittrice Clara Usón, per i tipi della Sellerio intitolato La figliaQuasi cinquecento pagine, anni di elaborata esplorazione nella psiche di una giovane donna travolta in poco tempo da spettri, larve, intuizioni, incubi, illuminazioni dalla luce color corvino, per ricostruire un affresco shakespeariano, drammatico, commovente, tormentato fino al punto del non ritorno, sul rapporto che intercorreva tra il generale e "suo figlio". Un amore fideistico, tanto cieco da non contemplare l’evidenza dell’orrore e delle responsabilità di Mladic nel conflitto bellico dei Balcani. Un’opera imponente che si pone sulle tracce delle antiche tragedie greche, che scruta con il mezzo letterario la deflagrazione che avviene nella psiche di una ragazza mentre comprende lentamente la verità sulla figura paterna. Una verità con la quale non riesce a fare i conti, che si intreccia indissolubilmente con la storia antica e recente dei territori della ex Jugoslavia e tutti i suoi nazionalismi isterici e fanaticiUn gesto, quello di Ana Mladic, che suo malgrado avrà ripercussioni sulla Storia, che scatenerà la ferocia di Mladic e le sue milizie fino all’estremo. Viene da ridere. La chiamano guerra etnica, come se l'etnia diversa giustificasse il macello avvenuto e gli stupri di massa, il sangue come acqua per calmare i furiosi istinti e là, per giunta, l'etnia era una sola per musulmani di Bosnia e ortodossi di Serbia e cattolici di Croazia. 
Contadina in uno dei tanti cimiteri improvvisati a Srebrenica
     Cuore nero                
Scoprì il cuore di   tenebra di suo padre, la violenza nera di cui Ratko Mladic era il vessillo, generale delle forze armate per conto del folle progetto ideato da Milosevic e Karazidc, la cosiddetta Grande Serbia. Gli occhi di Ana presero un’altra luce. La sua vita improvvisamente divenne incubo. Si lamentava di continui mal di testa, di non potersi concentrare nello studio per gli esami finali, era triste, abbattuta. Ana che sognava di diventare chirurgo perché da giovane era stato il sogno frustrato di papà.


La Zastava
Aveva 23 anni, ed era il 1994. Aprì l’armadietto di casa, tirò fuori la Zastava per spararsi un colpo alla tempia. Spararsi per sparire dall’orrore commesso dal padre in quel periodo. S’è portata il segreto nella tomba, s’usa dire. Quando certe tombe nono hanno alcun segreto. Una tragedia greca, o russa. Il rapporto di Ana con suo padre non ha nulla d’edipico. E’ tutto in un video che si può vedere su Youtube. Ci sono loro due che scherzano durante un picnic. Lo schermo nero. La scena dopo si vede il generale Mladic che piange sulla tomba di sua figlia Ana, convinto che l’abbiano uccisa, un complotto da parte delle milizie nemiche.
Un colpo al     cuore,
l'altro alla    tempia
La storia di   Ana, cambia totalmente, durante un viaggio a Mosca, dove con alcuni compagni e sente molte cose, troppe. Ne discute con gli amici. Cercano di rassicurarla, ma lei capisce che razza di criminale sia suo padre nella realtà, una verità a lei sempre taciuta. Uno shock emotivo come una scossa da sedia elettrica. Mettetela come volete, ma in Ana c'è molto di noi, più di quello che pensiamo. Altrimenti saremmo veramente ridotto all'ammasso. Per questo ritengo che il libro "La figlia" sia un romanzo che non può, non deve passare inosservato. In ogni biblioteca sarebbe opportuno che vi fosse uno spazio riservato ai libri "per non dimenticare". Questo bel libro ha pieno diritto e titolo di essere conservato là, è il suo giusto posto. Sarebbe sbagliato considerare la vicenda di Ana solo una tragedia singola avvenuta come capitano tanti tragici fatti, perché simbolicamente è pregna di significati, sul fronte padre-figlia, bene-male, terribile illusione poi frammentata, violazione del proprio amore, non so se riesco a spiegarmi. Solo chi s'è trovato sul bordo del crinale può dirlo, quando tutto è precluso e l'abbandono diventa abitudine. 
Pistola e Stirpe
Torture.  Stupri.
Ana realizza che il suo punto di riferimento, forse, non è l’eroe che crede. Torna a casa cambiata, introversa, non dice a nessuno che cosa pensa: Ci sono interpretazioni possibili. Ana si uccide per uccidere in realtà suo padre. O perché sente il peso della colpa e non può conviverci. O è una sorta di sacrificio. Mi ammazzo perché tu capisca. Io sono la persona al mondo che tu ami più di tutti e devi capire la sofferenza che stai infliggendo all'umanità. Tutte ipotesi che non hanno valore reale, ma solo tentativi per capire a fondo (se ci è permesso) il senso della mattanza di cui l'uomo è capace di macchiarsi e continuare a vivere convinto delle proprie idee come un pazzo vive rinchiuso nel suo castello di fissazioni e frustrazioni, un oceano di paranoie a getto continuo, senza tregua, da qui la ferocia di un uomo che ormai non aveva più coordinate, ma solo ectoplasmi mentali da nutrire.
"Operazione Stella"
A Belgrado,
non è un segreto dove sia la tomba di Ana Mladic. Ratko c’andava di nascosto nei sedici anni di latitanza. Il giorno dell’arresto volle deporvi sei rose prima d’essere portato all’Aja e processato per l’assedio di Sarajevo, la pulizia etnica in Bosnia e il genocidio di Srebenica. Il fratello di Ana, Darko, sopravvive negando il padre genocida. Invece, si sente ancora dire come il Premier Nikolic, cose vergognose. Ad esempio che i campi di concentramento serbi erano stati realizzati sul set di Hollywood, con modelli anoressici. 
     
La calda estate bosniaca
La tragedia   di Ratko e
Ana, termina lì, nel più feroce sterminio mai visto in Europa dopo il Nazismo. Dopo la morte di Ana, che lui chiamava Stella, Mladic rade al suolo Gorazde, una città della Bosnia ed Erzegovina e capoluogo del Cantone Podrinje, che sorge sul fiume Drina a nord dei monti Sandzak, un paese perso tra i monti balcanici di appena 30mila abitanti. In codice, “Operazione Stella”. Un anno dopo, gli otto mila massacrati nell’estate contadina della Bosnia orientale: “C’è un Mladic prima e dopo la morte di Ana. Un uomo impazzito dal dolore, disperato, dilaniato dalle fiamme di una sofferenza fantasma quanto reale. Sono convinto che Srebrenica sia stata una vendetta sul mondo, uno sfregio sulla ragione degli innocenti, un atto criminale che non può avere eguali, l'infamia gratuita. Gli stessi esperti militari dicono che ammazzare tutta quella gente, per giunta in pochi giorni e in che maniera, non aveva alcuna logica, ne senso, neppure ragione, anche sul piano strategico militare”, sono le parole dell'autrice.
Srebrenica, fossa comune. Solo un particolare. Notate come i corpi dei morti siano tutti come imbalsamati? E' la Cicatrena, disinfettante in polvere usato contro eventuali pandemie. Tutto pianificato, tutto previsto, tutto pronto  


Vicinanze insopportabili

Ratko, la belva ora langue
in una cella olandese, il processo pure. I giudici ascoltano i suoi deliri sull’Europa in pericolo e sull’Islam da fermare con ogni mezzo, perché quello, secondo Mladic, il pericolo numero uno per l'umanità.
Ratko Mladic, per nulla pentito di niente,
mentre si difende al Tribunale dell'Aja
Alexander Langer
"Lo leggo e mi spavento. Perché quei discorsi li conosco”, dice la scrittrice Clara Uson. Ora, che rispunta le xenofobia e le albe dorate in Europa, non si vedono nuovi Mladic, ma ci sono e rispunteranno con le loro vecchie idee. S’allarmavano perché i turchi si riproducevano troppo e questo avrebbe annientato la Serbia. E quel che si diceva per gli albanesi in Kosovo e abbiamo visto la fine. Ana la vide troppo vicina e non sopportò quella vicinanza

       
        Questa storia
ricorda quella di Alexander LangerCerto, personaggi e posizioni diversissime, ma la lealtà verso la percezione della grazia per l'umanità sono identici, simili, si distinguono immediatamente, quella di Alex ed Ana, così lontani eppur così vicini. Di questo grande uomo scrissi tempo fa, a chi interessa può cliccare http://mattax-mattax.blogspot.it/2012/08/alex-amico-mai-incontrato_9847.html



venerdì 2 agosto 2013

Il Conte migrante d'Europa


Orango Tango CosmoPoliteama
Scarseggiano i dettagli, ma la notizia è certa. Paolo Conte è al lavoro su un nuovo disco. Non si apre più di tanto nell’anticiparne i particolari e le sfumature: “Un’idea dei tempi non la conosco ancora, però sto lavorando a un disco, questo sì”, conferma il Conte più cosmopolita al mondo su tutte le riviste di Jazz del mondo. E prevista la pubblicazione del best “Gong-oh” del 2011, non può quindi che trattarsi di un componimento inedito, atteso e seguente a “Nelson”.
La finezza di Conte, caricaturale, indiretta, deformante, obliqua, com'è nelle sue corde, eppure già nella canzone d'apertura, Novecento, (vezzosamente scritta in lettere, al contrario del titolo dell'album), si coglie una visione fugace, quasi spiata di sguincio, di questo scorcio di fine millennio, che si apre con "dicono che quei cieli siano adatti ai cavalli e che le strade siano polvere di palcoscenico" e poi passa in rivista tra calembour, allitterazioni e fotografie antiche, la nostra cultura divisa tra "spolverini di percalle" e "grossi entusiasmanti motori", sul ritmo di un avvolgente valzer che tutto travolge e tutto raccoglie in un vortice d'impulsi epocali. "Ah, formidabile, il tuo avvocato è proprio un asino no, certe cose non si scrivono, che poi i giudici ne soffrono".

Gli  impermeabili
per   uomini bagnati

Dopo le tappe
di Vienna 
e Montreux, l’unica data è stata quella del 30 luglio appena scorso, nell’antico borgo medievale di Cava degli Umbri a San Marino. Chitarre in primo piano, bassi, fiati, percussioni e l’immancabile pianoforte suonato dallo stesso Conte, ormai il suo repertorio live lo conosco a memoria e ogni volta è una combinazione contingente a mille messaggi cifrati, non solo musicalmente, lasciando più spazio ad una rappresentazione artistica più totalizzante, generale, seducente e affascinante e con "cuanta pasion" il deretano prende forma in Jam Session. Cose da montarsi la testa solo perché si è lì e non chissà dov'altro, magari a farsi una squinzia, a scoreggiare una birra media, anzi tre birre medie. Come gli uomini senza impermeabili, uomini in lotta con la coscienza, cercando di accettarla sempre. Per il resto, tutto è già poesia.
Con quella   faccia 
un pò   così
Tutto   preparato
dal punto di vista armonico e ritmico, bandillon accordati, kazoo pronti a pernacchiare con la carta velina come membrana, l'infinita schiera di bonghi è pronta per essere tartassata, i fiati appesi e tutti dorati, strumenti a corda in ordine per grandezza e generi, colore e genere, almeno un 40ina. Con qualche spazio per l’aspetto melodico improvvisato, per essere di tanto in tanto anche spettatore e, rispetto ai tanti viaggi che il lavoro gli impone, di sentirsi un artista internazionale che fa i suoi giri e poi torna a casa a sbucciar banane o masticare noccioline come il gorilla Gongo nelle sue Langhe.
Dunque italiano, orgogliosamente sì, emigrante magari no. Migrante forse è meglio. E ci si ritrova così a parlare di confini. Ci sono tanti tipi di confini, fisici, metafisici, a volte amari altre piacevoli, dipende anche da noi e dal nostro orologio nomade che ora fa, se è fermo da un pò di tempo o va a rilento. Eleganza, stile, classe, cultura, erudizione e puro genio in un acquerello musicale di un cantautore schietto e distaccato, sempre a contatto con i sentimenti più vivi e raffinati di un animo nostalgicamente divertito, ironico, ricco di una notevole sensibilità di stampo jazzistico e latino-americana, mescolando tempi, ritmi, sound, generi, passi, movimenti.


'900 magia
di un secolo Tutto per creare parole
scritte a macchina e la passione per il Novecento, ch’è uno scrigno colmo di gioie e colori, suoni, atmosfere e magia: "Il Novecento non è quello che ho sotto gli occhi, è quello che risuona dentro di me. Nel mio piccolo, ho sempre cercato di inseguire lo spirito di questo secolo. Il Novecento è qualcosa di impalpabile, ha tutto un suo gusto ambiguo, che gli dà un fascino speciale". È un secolo molto difficile, perché pieno di equivoci. "Non avrei voluto vivere in un secolo diverso da questo, anche se è un secolo che idealmente non sarebbe il mio: ogni volta che suono il pianoforte andando per fantasmi, mi vien da dire che forse starei meglio nell'Ottocento, secolo sicuramente più pianistico e più libertario. Il Novecento è stato un secolo terribile, con due guerre mondiali: un secolo equivoco, ma interessante, in cui abitare è stato forse un privilegio".

Alla   Scoperta
del   Giazz

I suoi   due strumenti,
il pianoforte e la voce, hanno creato una delle contaminazioni più seducenti di sempre e insieme hanno contribuito alla riscoperta della musica Jazz in Italia, cosa direi non da poco e che riescono solo ai geni, perché il Jazz è ostico! Il Jazz è antipatico generalmente, perché viene considerato rumore, ovviamente dai neofiti. In realtà è una dimensione superiore a quella a cui siamo abituati musicalmente. Tra le donne poi, è quasi impossibile trovarne una a cui piacciano le stelle del Jazz. Come in Aguaplano, dove in alto mare dal suo elicottero, Conte, vede un pianoforte, in alto mare, che ci fa un pianoforte in alto mare, si domanda l'autore? Ma il Maestro delle stelle del Messico ormai ci ha abituati a questi meravigliosi scherzi, dopo che hai sentito un Mengoni qualunque, ascoltare Paolo Conte diventa un volo unico con le scarpe lucidate per una ritmica verde milonga.
                               "Ma le gambe, ma le gambe..."
E’ sempre così
con Paolo Conte, si inizia chiacchierando di canzoni e ci si ritrova a parlare del mondo, perché la sua musica davvero non conosce esili, solo fughe momentanee in quanto figlio di ogni dove. Canta in italiano Conte, ma anche in francese, inglese, spagnolo e se c'è chi glielo chiede con che verso farebbe iniziare una canzone che racconti il suo rapporto con la musica italiana, opterebbe a "Ma le gambe" di Giovanni D’Anzi.
Una citazione di fine anni 30, che sa di visione ampia e che al contempo ci riporta alla mente tante realtà musicali perdute, dal Trio Lescano al Quartetto Cetra, tutti fini interpreti di un mondo musicale che non c’è più, per molti aspetti fortunatamente. Ma non bisogna andare così lontano per declinare al passato le vite artistiche di illustri colleghi, su tutti hanno fatto rumore gli addii di Fossati e Guccini. A questo proposito ha dichiarato Conte: “Mi auguro che questi due grandi artisti tornino a essere visitati dalle Muse e riprendano a scrivere”.
La maratona del Tango
Fra Conte e la musica c’è un amore viscerale. Il Jazz? Una passione. Il Tango? Un’avventura. La Milonga? Una tenerezza. Il Mocambo? Un'allegria. Da ciascuno prende quel che gli serve, cioè il meglio. Un accordo, un arrangiamento, un tempo, un svisata guascona, una doppia battuta d'orchestra, tutto volge al perfezionamento slabrato, vintage, consumato.
  Blues-Tangos”,
illanguidisce e commuove
Per poi tradirli tutti confondendoli (per troppo amore, non v’è dubbio) generando una musica senza tempo sospesa in un limbo dove tutto oscilla, nulla è fermo. Il Blues diventa Tango, il Tango diventa “Blues-Tangos”. E questo illanguidisce, culla, commuove, “surrealizza” lo stato d'animo di chi a teatro ha avuto la sana esperienza di ascoltarlo e vederlo pigiare come un operaio sui tasti del pianoforte. Le sue musiche, sempre evocative di un qualcos'altro con risonanze molto sgangherate e sviluppate con sapienza musicalmente anarchica, sono in realtà rifacimenti che permettono più livelli di lettura, dove in una canzone non vi è un solo è univoco messaggio, ma tanti significati e ambasciate in una missiva.
    Fraseggi beffardi
Molti percepiscono la musica di Conte come un Jazz antiquato o un blues andato, straniato e stravolto o ancora come una ballata messicana. Forse è un miscuglio di tutti e tre gli stili. Col suo fraseggio, i suoi colori scenici, i versi onomatopeici volutamente mai realizzati alla perfezione, beffardi, riesce a far passare storie e atmosfere surrealiste o intimiste, come neanche Capossela, se m'è concesso, sa esprimere. O forse, più semplicemente, viaggia su un treno parallelo, anche se non gradisce paragoni con Conte, Waits o Cohen. A Bellaria, Vinicio mi disse con fare stizzito: "E' già tanto difficile scrivere una canzone, perché poi devo andarmi a cercare se somiglia più a quello o a quell'altro? Fatica inutile, sprecata. Poi non ha senso". Aveva ragione lui, le mie erano le solite patacche ciarlatane da Rolling Stones edizione italiana, ci scrive anche Scalfarotto, quello del Pd, ho già detto tutto.

La Grande Musica
Un distacco illuminista e nobile, dell'ironia selvatica, critica, violenta, anche plebea, eppure lieve e cavallerescamente auto-ironico. Mai prendersi sul serio, non so se l'abbia detta mai questa frase, ma nelle sue canzoni si respira questo concetto basico. Assoluto disinteresse per l'attualità e tutto ciò che la circonda, ma non per la storia che ama. Un macaco senza storia in pratica, che si sente, come Gongo, prima che arrivi. I rumori annunciano il suo ingresso sulla scena del Politeama. Perché la musica dei grandi è patrimonio della nostra cultura e il nostro jazz-man lo sa bene, ma se oggi le sue canzoni sono in buone mani, il problema è la memoria, nel futuro, del passato
Ciao Renzo
In attesa del nuovo disco
I curiosi dell’arte e
di Paolo Conte in particolare, su chi o cosa valga la pena porre attenzione, dove dobbiamo mirare lo sguardo repentino: “Un disegno di Dürer, gli Hot Five di Louis Armstrong e le poesie di Camillo Sbarbaro”. Qualcosa con cui ingannare l’attesa che ci separa dall'ultima pietra preziosa di Paolo Conte ora l’abbiamo.