Notti notturne

sabato 13 agosto 2011

Rolling Stone Magazine, che vergogna!

*Ballata per Faber*
VERGOGNA

di Matteo Tassinari
Un giornalone di quelli musicali e il pepe nel culo, senza riuscirvi, e come avrebbe potuto innanzi a tanta potenza espressiva, ha provato ad abradere, sbucciare, slabrare lo scrigno più prezioso della musica italiana, quello composto da Fabrizio De Abdré. Vergognatevi! Si chiama "Rolling Stone", non so se lo conoscete, ha sbrancato senza motivo la vita privata di Faber paragonandolo addirittura a Lucio Battisti. Paragone improponibile e da incompetenti, per un giornale che dice di occuparsi di tal'arte.

Il chimico
Il "Rolling Stone" non è altro che una "passante" o un "chimico" o Bocca di rosa o una Disamistade o un Anima salva. Non sanno cosa scrivere, ma non vedono l'ora di scriverlo. Faber si sarebbe divertito stendendovi con cinque parole stampate nell'anima del mensile fotocopia di quello americano, anzi rimasuglio di quello americano. Solo per la vendita di 50mila copie in più non è accettabile infangare uno dei massimi poeti del '900 per questioni private e per di più false. E' un gesto senza atto di amore e calma di vento. Non si passa senza colpo ferire. Ora, nelle ore infinite, vergognatevi senza risparmio, dateci dentro forte nella vergogna. Su, forza! Chiedete scusa a tutti, vi saluto oltre a non comprarvi più, a parte che non vi ho mai acquistato e vi privo di scrivere di me, visto che per due volte sono finito, non so perché, sulle vostre colonne.

      Da "Tutti morimmo a stento"

"Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l'odore del sangue rappreso,
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso"
(Ballata degli impiccati, n. 5)
La
cagotica Riccione
Il suo ultimo disco s'intitolava "Anime Salve" e lui le conosceva perché anche lui lo era in una smisurata preghiera, un salmo, un'invocazione, un'imprecazione, una richiesta d'aiuto delle minoranze. Fabrizio aveva un volto bellissimo, quello di una persona capace di vivere intensamente il dolore altrui. Ma voi che capite solo il coccio, so che non capirete nulla di quel che scrivo, troppo inaciditi dalla vostra esistenza. Sono passati dodici anni da quando lo piansi perché mia madre mi disse che al tg raccontavano che Fabrizio era morto. La vita mi aveva fatto il dono di intervistarlo e conoscerlo bene per tre volte (Forlì, Riccione e Rimini) e la beffa di essere invitato a casa sua e non esserci andato.
Poeta disallineato
Con Enrica, ebbe la disponibilità di chiederci se ci andava di passare una decina di giorni a Tempio Pausania in Sardegna dove viveva con Dori e i figli. A noi non parve vero e accettammo. Poi, per le solite ragioni di cui non si conosce la ragione, non ci andammo. Oggi il rammarico è davvero tanto che mi darei degli schiaffoni in faccia. Parlammo liberamente quella sera, ci aiutò molto il Chivas in questo, e l'intervista si trasformò in un bellissimo scambio di parole e opinioni, in quel post concerto notturno nel back-stage "dentro" la cagotica Riccione. Poi passarono alcuni mesi e nel silenzio Fabrizio era in ospedale ricoverato e pochissimi lo sapevano. Il linguaggio dei versi, delle rime, dei ritornelli, usando metriche inesplorate e immuni a tutto, lo rendevano "il" poeta non allineato ad alcuna trincea, facendo sua una capacità dissacrante e ironica capace di sbriciolare le manie borghesi della metà del '900.
"Angelicamente
cristiano"
Fabrizio stesso, più volte, disse: "Cristo è stato il più grande rivoluzionario della storia". Il senso di sconfitta che le parole esprimono, non basta ad arginare quello che è stato per pochi, un profondo conoscitore ed evocatore della storia del genere umano, nelle cui vene scorre il genio dell'intuizione più sottile. Con la sua morte ci ha lasciato uno spazio preciso, angusto e avaro che nessuno ha più saputo colmare.
Di Baglioni, se vogliamo ne troviamo almeno 20, ma Faber era unico e mi sa che lo rimarrà per sempre. Va da sè che il suo obiettivo diventano i soloni, farisei, boia, sepolcri imbiancati, giudicatori e membri di giurie false, pagliacci montati, cialtroni di sempre, parolai malandrini, buffoni di corte, portaborse, infingardi di sorte, scene distorte e contorte. "Creuza de mä", nata forse per accreditare e riscattare la storia del Mediterraneo e di tutte le "migranze" in esso avvenute e cresciuta con la elaborazione di lingue nuove e stili diversi, ne era la consacrazione stilistica e simbolica dell'essenza "andreana", laddove una "mulattiera di mare", "mandilan", "gente di Lugano, facce da tagliaborse, quelli che della spigola preferiscono l'ala" o "con i chiodi negli occhi finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere" era il mondo dei reietti dalla società della sua infanzia ma sempre rifiutata.
















Le leggi del branco
Mai figure, sempre ombre, mai facce a cui chiedere dov'è che andate. Un'afflitta quanto triste visione di libertà avversa alle "leggi del branco", l'arroganza del potere mista all’alterigia della sovranità. La rabbia fa urlare ai destini ingrati. Il poeta Mario Luzi, scrisse che: "De André è il chansonnier. Un artista che si realizza proprio nell'intertestualità tra testo letterario e testo musicale". Back-frame-return. Era un lunedì e per un attimo il tempo, per un periodo imprecisato non ho avuto più pensieri, tutto si è arrestato su quella voce e su come scolpiva con le parole l'anima di chi le ascoltava. Un momento sfogato negli occhi, mi commosse fino al punto che da qualche parte mi sono detto: e adesso? Era una notizia che non pensavo neppure, poi sul fatto mi si aprì un valico di montagna brividi, a Tempio Pausania.
Un       magnifico borghese
Nato da famiglia ricca e nobile di Genova (suo padre era presidente e amministratore delegato dell'Eridania) e suo fratello Luigi De André, un avvocato genovese tra i più famosi nel capoluogo ligure. Faber faceva parte di questa estrazione medio-borghese, passando però la vita intera a denunciarne le ipocrisie di quel vivere a lui troppo stretto e poco incline alla misericordia umana. Un magnifico e bel borghese che tradì le sue origini sociali per cantare in chiave trobadorica medievale di prostitute, disertori di guerra, amici fragili, barboni, indiani uccisi da un "generale di 20 anni con occhi turchini e giacca uguale e figlio del temporale". Un artista che ha sempre avuto la percezione netta che il mondo era ingiusto e ottuso. Lui scelse, fra il 1965 ed il 1970, di andare ad abitare nei carrugi a 25 anni dall’anarchico Riccardo Mannerini, dove iniziò la serie dei concept-disk con "Tutti morimmo a stento". L'estrema sinistra gli dava del qualunquista.

Così con uno stile prima d’allora mai incluso o predetto, Faber tocca il suo vertice nell'alcolica "Amico fragile", allegoria di chi non ce la fa più e si lascia perdere nei suoi sogni solitari e gonfi di fumo. È in questo periodo (1972-1979) che De André viene sottoposto a controlli da parte della Polizia e Servizi segreti italiani. In base a quanto ricostruito quando questa informazione è stata resa nota a metà anni '90, i controlli sarebbero stati effettuati dopo che un suo conoscente era stato indagato durante le prime inchieste sulla strage di piazza Fontana (allora ritenuta a torto dagli inquirenti di matrice rossa). Le parole di Faber facevano partire di testa anche i Servizi, pensate un mensile!? 














Detestava
le maggioranze
La destra l'apostrofò "eversivo e libertino". Ma lui teneva fra le labbra dei fili d'erba che lo rendevano "molto più libero di voi". De Andrè è il più poeta dei cantautori. Ma non solo quelli italiani, anche quelli americani come Bob Dylan o Leonard Coehn o Georges Brassens. Dov'è arrivato lui, gli altri non ci arriveranno mai, per ora. Nessun altro autore ha saputo cantare così civilmente l'odio per l'inciviltà del nostro tempo. Il cinismo e l'indifferenza che hanno invaso il mondo non l’hanno mai risparmiato e lui non capiva quest’insensatezza che lo portava a vivere in una sua storia senza scegliere la vita. Detestava le maggioranze (come dargli torto) e le loro capacità di fagocitare i sentimenti per poi anestetizzarli. Amava la notte (come non capirlo) e in lei ci si perdeva lavorando, scrivendo, bevendo, fumando, lavorando, ridendo, scherzando, piangendo, sequestri, per poi svegliarsi alle tre del pomeriggio pensando a come siamo vincolati a questa vita.

La canzone del servo pastore, nel suo primo concerto a Sarzana 1981

La cognizione
feroce dei vincitori
Le volte che ho incontrato Fabrizio, mi ha sempre impressionato come con le parole mi spiazzava, mi metteva in condizione di non riuscire a replicare ad ogni sua affermazione, mi lasciava interdetto e le parole, vi assicuro, che quando lavoravo non mi mancavano. Con Faber era sempre diverso. Per lavoro li ho passati quasi tutti: Gaber, Conte, Capossela, Fossati, Dalla, Guccini... nessuno come lui. Ti sentivi quasi fregato dalla sua visione ampia, per poi alla fine ammettere a te stesso la sua ragione, anche degli scogli umani più difficili da negoziare con sintassi, linguistica diacronica o glottologia, fonie cantate, epitesi, calembour e sostantivi allungati. La verità umana è cangiante e lui ne leggeva i colori. E mi rendo conto ora di come sia limitata anche la parola nel dire il non detto per incapacità. E questa sua lucida cognizione della ferocia dei vincitori, piuttosto che ispirargli rabbia e impotenza accendeva la sua forza narrativa e dilatava la sua dolcezza, questione che tocca a pochissimi. Trovò la forza di cantare l'esperienza del sequestro vissuta con Dori, percependo la debolezza finale dei suoi sequestratori e perdonandoli.

...e andate in pace

Fabrizio De André muore l'11 gennaio 1999 all'Istituto dei Tumori di Milano, per questo m'è sembrato giusto ricordarlo a ferragosto. Lascia alla cultura parole, personaggi e suoni indelebili e cangianti come nessuno ha mai saputo fare, neanche Cohen o Dylan. Non hanno l'alto senso di Sacra Pietas che pervadeva l'anima di Faber, non avevano la misura colma del perdono di Fabrizio. Faber vi avrebbe illuminato, disintegrandovi, con un suo intercalare qualunque, una pennellata delle sue, un colpo di artista a "tuto todo", sempre ostinati e contrari. Nelle pieghe delle mille umane, troppo umane, traversie e incognite da Miguel de Cervantes troviamo, certo non a caso, l'universale condizione umana.