Notti notturne

mercoledì 19 marzo 2014

Apocalisse Brando Now!

Apoca lypse
Brando
Apocalypse now!, il mio film!

di Matteo Tassinari 
Questo post, per quanto mi riguarda, è la sfida più somma e alta che mi sia mai cimentato a scrivere da quando ho aperto questo blog: Apocalypse now, che considero con adorata benevolenza di Coppola, "il mio film". Mi ha sempre fatto una paura fottuta. Un timore referenziale, in tutto, su tutto, per tutto. Su di me ebbe un effetto "impattante", di quelli feroci. Mi fece vedere la guerra a 17 anni, il suo volto.
Non che mi faccia paura il film in se, o il genere. Ma avrei preferito prendere in esame altre pellicole, Arancia meccanica, Blade runner, Pulp fiction. Tutti film impegnativi nell'analisi, ma non come la gemma che brilla nel firmamento cinematografico autografata da Francis Ford Coppola, considerato uno dei maggiori cineasti della storia del cinema, con Scorsese, De Palma, Lucas, Spielberg, Tarantino... 









Il suo supplizio:
morire
Un film dove c'è tutto l'uomo nelle sue manifestazioni più estreme e quindi più autentiche, dalla gioia allo strazio, dall'amore all'odio, dallo stupore alla morte. Un'autentica imponenza narrativa che arriva dritta come un fulmine al plesso solare, proprio a livello dello sterno. Ne ho paura in quanto forse è il più bel film che abbia mai visto, sull'odore della guerra, il suo colore, la sua pena, la sua Croce, il suo spasimo, il suo supplizio: la morte! Lo vidi al cinema, quando uscì nel 1979, per poi rivederlo un centinaio di volte. Ora, il terrore di rovinarlo con la volgarità e gli azzardi delle parole che sceglierò, è alta assai.
E'   come giocare in nazionale, non in un club privato. E' come gareggiare con Gadda a chi trova la chiosa più alata, algebrica e gargantuesca, impresa persa in partenza, neanche ad immaginarla. Sarebbe come disputare un game a Tennis contro George Mcenroe o una partita a scacchi con Gary Kasparov. Sarebbe a chi fa più palleggi col pallone contro il Maradona di 20 anni fa, ma anche quello attuale mi straccerebbe come un fesso.
Metafora figurativa della guerra di Bosch 
Sarebbe come disegnare una Crosta più visionaria di quelle dipinte da Hieronymus Bosch o avere scritto il libro più bello che voi avete letto, o duettare nel bel canto con Aretha Franklin. Sarebbe come fare sesso con Cate Blanchett. 
Io ci provo, non a scopare con Cate (come farei? da dove cominciare?), a scrivere di Brando e le sue imprese attoriali. Con Cate mi sarei divertito di più.  
Il regno del Colonello Kurtz, interpretato da Marlon Brando
I     metodi
insani     di
Kurtz 
Saigon, 1968. Il capitano Willard (Martin Sheen) è convocato d'urgenza presso gli uffici dell'Intelligence da due ufficiali dei Servizi e da un agente della Cia. Willard è specialista in missioni speciali, ma quella che gli viene proposta è più "speciale" delle altre. Con un pugno di uomini deve risalire su una navetta della Marina, il fiume Lung, sconfinare in Cambogia e raggiungere il "rifugio" del colonnello Walter Kurtz (Marlon Brando), un ufficiale che ha trasceso i suoi compiti e si è costituito una sorta di esercito personale, macchiandosi dei peggiori crimini che si possano immaginare. Il generale dell'Intelligence parla di lui come di un graduato eccezionale, che ha raggiunto gli alti vertici a seguito di una carriera esemplare, ottimo uomo e ottimo soldato.
Dennis Hopper, "Fotografo" da il benvenuto a Willard (Martin Sheen)
Tecniche di 
annientamento
Un uomo sfuggito di mano, da almeno un anno, agli alti Comandi, dando inequivocabili segni di pazzia e adottando "metodi malsani". Lo testimoniano alcune intercettazioni registrate direttamente dalla Cambogia. In due campioni fatti ascoltare a Willard, Kurtz farnetica di tecniche di distruzione da spingere all'estremo, fino ad annientare "maiale su maiale, vacca su vacca, villaggio su villaggio". Su Kurtz pende anche un'accusa di omicidio, avendo eliminato senza autorizzazione alcuni agenti colpevoli, secondo la sua mente, di fare il doppio gioco. In una guerra come quella condotta in Vietnam è, sempre più difficile tenere distinte la ragione dalla follia, il bene dal male, resistere alle pulsioni oscure che s'impadroniscono delle coscienze e le fanno deviare oppure le lasciano come sono e dove sono. L'imprevisto incombe sull'Apocalypse Messianica. 
    La follia è una umana condizione. In noi la follia esiste è presente come lo è la ragione. Il momento dell'arrivo del battello nel "regno" di Kurtz

Fine     comando   !
È una riflessione etica che il generale, a conclusione del rapporto su Kurtz, sviluppa tra sé e sé e che getta sconcerto tra i presenti. Tanto che l'agente della Cia interviene riafferrando il bandolo della matassa. Occorre quanto prima e con la massima determinazione "porre fine al comando" del colonnello impazzito. Navetta manovrata da quattro giovani marines: Jay, Lance, Phillip e Clean. Lenta marcia di avvicinamento all'obiettivo. E lenta marcia di avvicinamento di Willard al "Cuore di tenebra" di Kurtz, sulla scorta di un dossier segreto composto di fotografie, documenti riservati, articoli di giornale, ecc.
Amo  l'odore
del Napalm
al mattino
Della pratica-Kurtz, tiene occupato Willard per tutta la traversata e risulta intervallato da cinque diversi "incontri" o "incidenti di viaggio" disseminati lungo il percorso devastato dal Napalm gettato sulla popolazione civile senza alcun limite. Il bombardamento al napalm di una baia da surf perpetrato dalla "cavalleria dell'aria" del colonnello Kilgore. Lo spettacolo di tre "Playmates" in una base militare avanzata. La devastazione di un campo medico ad opera di un tifone. La "resistenza" di un nucleo di coloni della vecchia Indocina in una piantagione. Il passaggio di Do Lung, estremo avamposto difeso dagli americani contro le continue incursioni di vietcong, oltre il quale si profila la Cambogia e il territorio controllato dall'armata al volere folle di Kurtz.
"L'orrore, l'orrore, l'orrore..."
L' Arcangelo
feroce 
Kurtz, dunque. Come ha fatto quest’uomo a diventare quello che è diventato? Si chiede Willard. Eccellente allievo di West Point. Eroe della guerra di Corea. Pluridecorato. Una carriera militare brillante, "anche troppo", perfetta. Kurtz è un quadro che l'Esercito prepara destinandolo ai più alti livelli: generale, capo di Stato Maggiore. Poi, nel 1964, dopo una relazione imbarazzante redatta per il Presidente e il Pentagono, chiede senza un motivo plausibile di essere trasferito tra i paracadutisti e nel 1966 si arruola nelle Forze Speciali, operanti dietro le linee vietcong. È il primo sintomo della "devianza". Nel 1967, in missione segreta, organizza di sua iniziativa un'operazione denominata "Arcangelo". Nel 1968 si rende colpevole di omicidio eliminando alcuni agenti doppiogiochisti. È la goccia che fa traboccare il vaso.
Messo di
fronte
all'obbligo
di riferire a una Corte marziale, fa perdere le proprie tracce. Le ultime notizie lo dipingono come un feroce massacratore di vietnamiti, forte di un esercito personale che lo venera come un dio, un capo carismatico, ed esegue ogni suo ordine, anche il più assurdo. Persino il capitano Richard Colby, incaricato di una missione analoga a quella di Willard, si è unito a Kurtz, mescolandosi ad un'accozzaglia di rinnegati composta da indigeni (con donne e bambini) e disertori:

Di film e libri analizzati, Kurtz rimane il più affascinante
una "corte" variopinta rintanata nella giungla cambogiana che adora il proprio idolo e lo protegge come un "animale sacro". La vita di Kurtz non sfuggiva meno rapida, trascinata dal riflusso che la spingeva verso l'oceano inesorabile del tempo. Il direttore era molto placido, ormai non aveva più preoccupazioni di vitale importanza; il suo sguardo, che comprendeva tutti e due, si era fatto sagace e soddisfatto: la "faccenda" si era risolta nel modo più desiderabile. Vedevo avvicinarsi il momento in cui sarei rimasto l'unico rappresentante del partito del "metodo inadeguato".
L'esercito d'indigeni addestrati da Kurtz nella giungla cambogiana
(notate che luce, merito di Vittorio Storaro che per questo vinse l'Oscar)

Il Santuario
di Kurtz
Willard esamina foto, articoli, estratti, fotocopie. Apre buste top secret e compulsa documenti su documenti. Confronta. Valuta. Con l’avvicinarsi dell'obiettivo, procede all'operazione contraria: distrugge via via l'archivio, straccia foglio su foglio e butta i frammenti nell'acqua del fiume Lung. Il "santuario" di Kurtz appare sorvegliato da un "mucchio selvaggio" di corpi ignudi dipinti, in piedi su una flottiglia di canoe. La navetta di Willard deve superare lo sbarramento.
L'individuo equilibrato è un pazzo. Charles Bukowski
Kurtz, si      ascolta
Tutt'attorno un macabro spettacolo: cadaveri d'impiccati, teste mozze infilzate su una selva di pali. Willard riconosce Colby, maschera sfigurata e dipinta come le altre. Ma non è lui ad accoglierlo e a condurlo a riva. E' un bizzarro fotoreporter (Dennis Hopper), una specie di "arlecchino" che informa subito Willard dell'impossibilità di raggiungere Kurtz, di parlare a Kurtz. "Kurtz non è uno a cui si può parlare: Kurtz è uno che si ascolta soltanto". Il primo contatto avviene dunque senza apparenti attriti, e alla fine della prima perlustrazione Willard, in compagnia di Jay e Lance (Clean e Phillip sono morti durante il viaggio), fa ritorno alla navetta. È il secondo contatto che gli costa l'arresto e la traduzione al cospetto di Kurtz, nascosto in un antro buio e minaccioso. L’uomo ha una struttura corporea gigantesca, il cranio completamente rasato e la voce roca, percorsa da un tono inquisitorio. Anche lui, come Willard, è un "uomo di fiume". Il fiume della sua infanzia era costellato da una piantagione di gardenie ed era un eden profumato. Ora le gardenie non ci sono più e il bosco è ridotto a un cumulo di sterpaglie. Sa perché Willard è stato mandato fin lì: per "porre fine al suo comando". Ma lui, Kurtz, non è giudicabile. Lo possono anche assassinare, ma resta ingiudicabile, al di sopra di ogni comune valutazione. Mentre Willard è soltanto un "galoppino del droghiere", non il soldato che crede di essere, e quando accenna ai "metodi insani" riferisce solo una lezione imparata a memoria.
Di fronte a se stesso, devastato dal dolore della guerra come ideale
La soluzione finale
Willard prigioniero all’interno di una palizzata piantata nel fango, guardato a vista da donne e bambini. Il fotoreporter gli allevia le sofferenze offrendogli un mestolo d'acqua e una sigaretta. A lungo andare, Willard sprofonda nella melma, diventa un corpo piagato e abbrutito. Un giorno Kurtz, col volto da stregone impiastrato di biacca, gli fa scivolare in grembo la testa mozza di Jay. Willard inorridisce. Kurtz gli apre la porta del rudimentale carcere e gli legge, con un tono ufficiale, alcuni passi di un articolo del "Time Magazine" (22 settembre 1967): una sorta di panegirico dell'escalation militare promossa dal Presidente Nixon, premessa di una "soluzione finale" troppe volte rinviata. Kurtz raccomanda a Willard di leggere l’intero articolo, di non perderlo, di fame tesoro.

Litri e litri di napalm
Poi il  gesto
Il compound più vicino a Kurtz
magnanimo: “Lei da questo momento è libero. Sarà solo sorvegliato. Se però tenterà di fuggire verrà ucciso”. Ma Willard sta male. Poco dopo si trascina fuori dall'apertura cercando aiuto. Sviene. Alcune donne lo soccorrono e cercano di rianimarlo, con acqua e cibo. Giorni dopo. Willard, in compagnia del fotoreporter ("Lo vedo finito, morente: se muore lui, muore tutto") a due passi dall'antro di Kurtz. Idoli khmer. Mostrine e decorazioni. La divisa di colonnello. Le foto della madre e di lui bambino già viste nel dossier Kurtz legge ad alta voce "Gli uomini vuoti" di T. S. Eliot. Spiccano nella sua biblioteca, oltre alla Bibbia, From Ritual to Romance "Siamo gli uomini vuoti / siamo gli uomini imbottiti / che appoggiano l'un l'altro / la testa piena di paglia". Secondo colloquio tra Willard e Kurtz. "Quand'ero nelle Forze Speciali, ho conosciuto l'orrore. Bisogna familiarizzare con l'orrore". Opinione definitiva di Kurtz: "Noi addestriamo dei giovani a scaricare Napalm sulla gente, ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere cazzo sui loro aerei perché è osceno". Nella follia di Kurtz, c'è del vero. Nel senso che abiura l'ambiguità degli Stati Uniti d'America verso un popolo pacifico in soldati che per difesa sono diventati violenti nella giungla.
La macellazione
della   vacca sacra
"Mi sembra siano trascorsi secoli", Kurtz è in preda ad un suo attacco paranoidale. "Arrivammo in un accampamento nel quale chi era passato prima di noi aveva mutilato ciascun bambino di un braccio. C’erano cumuli di braccia ammucchiati dappertutto. Mi sono detto: se avessi un'intera divisione di uomini addestrati a fare cose del genere vincerei la guerra da solo. Mi ha colpito in pieno petto, in pieno cervello, come un diamante, fino a farmi piangere, la capacità di fare certe cose senza pensare, senza il supporto del giudizio. La pura forza primordiale dell'atto in sé, compiuto da uomini che avevano alle spalle una famiglia, dei figli, uomini assolutamente normali che avevano saputo perpetrare quel gesto come se fosse assolutamente normale. A proposito, vorrei che lei si mettesse in contatto con mio figlio, che gli facesse sapere quanto mi è accaduto". Notte. La "tribù" di Kurtz sta preparando un sacrificio.

La macellazione di una vacca sacra è una celebrazione, un’occasione di festa per gli indigeni vietcong. Lo stesso Lance si muove in mezzo a loro come se avesse trovato il proprio ambiente naturale, per lui che viaggiava sulle tavole da surf sopra le onde californiane. Willard sceglie questa pausa “sacrale” per immortalare Kurtz, come lui stesso voleva: "Persino la giungla lo vuole morto, e comunque è da essa che in realtà prende gli ordini". Si arma perciò di una lama affilata e si accosta alla vittima.
Kurtz,
seduto
nel   suo
antro, sta registrando al microfono l'ultima farneticante dichiarazione: “Ci sono dei giovani che vengono addestrati a sganciare napalm e che non possono scrivere ‘cazzo’ sulla fiancata del loro aereo perché la parola è considerata oscena". Willard lo “macella” in simultanea con la macellazione della vacca. Sullo sfondo, le note di The End di Jim Morrison. E il volto impenetrabile di una giovane donna, che assiste impassibile al sacrificio del "padrone". Il quale, disteso a terra, ha il tempo per mormorare: "L'orrore, l'orrore, l’orrore". Consumato l'atto, Willard scende le scale del "santuario" e fende la folla dei celebranti, che si apre al suo passaggio con un moto di venerazione. L'ufficiale tiene in mano il fascicolo che ha trovato sulla scrivania di Kurtz, un dattiloscritto sul cui frontespizio è tracciata a mano la frase: "Sganciate la bomba! Sterminateli tutti!". Willard si fa largo tra gli adoranti. Trascina via con sé, prendendolo per mano, il frastornato Lance, che pare regredito a uno stadio infantile, primitivo, analogo a quello degli indigeni a causa di un trip allucinogeno che aveva assunto poco prima che arrivassero da Kurtz.











Francis Ford Coppola in azione
Penso  che vedere teste mozzate per terra in acido sia esperienza che trafigge, nel caso di Lance è stato il viaggio nel delirio che gli ha salvato la vita, essendo sotto l'effetto di Lsd. In quello stato mentale, non si rendeva conto di quel che succedeva. In mano al destino più disumano si possa verificare sulla terra. Insieme guadagnano la navetta e riprendono la via del ritorno. L'ultimo fotogramma affianca il volto di Willard, una figura dalle sembianze totemiche Khmer, con la sovrapposizione sonora delle ultime parole di Kurtz: "L’orrore, l’orrore, l'orrore". Si tratta del cosiddetto secondo finale, quello adottato da Coppola per la riedizione Apocalypse Now Redux, 2001. Il primo, mai distribuito, prevedeva la successione di Willard a Kurtz e la sua permanenza nel villaggio come nuovo dio e despota. Il terzo, compreso nell'edizione del 1979, è una variante del secondo e prevede l'abbandono del villaggio in contemporanea con la distruzione dello stesso, effettuata dall’aviazione americana.
Dimostrò
come si recita
Brando, interpreterà un personaggio di dimensioni sovrumane, una figura mitica, da teatro shakesperiano, di altissimo livello espressivo. Insomma, creò in 20 minuti di pellicola, un personaggio nel personaggio, portandolo agli albori del cinema mondiale e della sua stesa storia. È questa la rappresentazione artistica adottata da Brando e Coppola dopo che, condizionati da centinaia problemi anche pratici (l’attore, nel 1976, si presenta sul set delle Filippine orrendamente grasso e per questo dovettero tutta la troupè aspettò che dimagrisse almeno 20 chili per riprendere i lavori) si vedono costretti a "rivoltare il personaggio del tenebroso Kurtz da tutte le parti" finché non gli trovano la giusta dimensione.
È uno dei casi (non rarissimi) in cui un film durerà quattro anni e sarà avversata da contrattempi di ogni genere - assume una direzione anziché un'altra per il convergere di determinate circostanze. Per cui Apocalypse Now, che in origine, secondo il canovaccio di sceneggiatura approntato da John Milius sulla scorta di Cuore di tenebra di Conrad, doveva essere una grandiosa, visionaria messa in scena della sporca guerra combattuta e perduta in Vietnam, diventando un'allucinata discesa agli inferi sulle tracce di un "uomo-monumento", impegnato in una trasfigurazione metafisica del male, paragonabile alle "malefiche" incarnazioni wellsiane di certi personaggi come il Macbeth o l'Otello.
Kurtz mentre prega nel suo mondo mentale disperso nel buio

Kurtz,
è la Giungla 
Il film   nasce quindi con un'anima a suo modo "hollywoodiana" e, dopo averla perduta, finisce per trovarne un'altra, onirica e subliminale, modellata sull'anima nera di Kurtz, il pazzo, il reietto, il rinnegato che "prende ordini dalla giungla", ossia dalla propria identità più oscura e imbarbarita. Nessuna eloquenza al mondo saprebbe essere più distruttiva nei confronti della nostra fiducia nel genere umano di quanto lo sia stata la sua ultima esplosione di sincerità. Lottava anche lui contro se stesso. Sotto gli occhi l’inconcepibile mistero di un’anima che non conosceva né ritegno, né fede, né paura e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa. È così che prende corpo (alla lettera, un corpo monumentale di 140 chili) la prospettiva scenica e recitativa di Brando, antinaturalistica, astratta, stilizzata. E prende corpo la sua identificazione con la wilderness, area naturale selvaggia o ambiente naturale privo di opere e manufatti antropici, che non corrisponde solo allo scenario primitivo della giungla e dei suoi abitanti, quanto alla dimensione mistico religiosa che da quello scenario promana. In senso idolatrico e sacrale, con uno specifico cerimoniale a base di riti pagani e di capri espiatori.
Marlon Brando nel backstage di "Apocalypse now"

L'orrore...
l’orrore... l'orrore!
Resta in ogni caso confermata in tutta la sua suggestione, con quel cadavere-totem di Brando che continua a ripetere oracolarmente , la chiave di lettura esoterica dell’episodio e della dialettica Willard-Kurtz, calati entrambi in un oltretomba - il fiume Lung risalito come fosse lo Stige, l'antro di Kurtz esplorato come fosse l’Averno - che sa di arcano, di orfico. Basti pensare a quale distanza separa la realtà umana e documentaria del colonnello Walter E. Kurtz, testimoniata dalle fotografie di un Brando relativamente giovane (in una appare con la divisa indossata in Riflessi in un occhio d’oro), dal mito sovrumano del Kurtz impazzito, governato dalla “giungla” e dalle pulsioni primordiali: il Kurtz del Brando precocemente invecchiato e smisuratamente ingrassato, pronto a rasarsi la testa per apparire ancora più mostruoso e feroce. Primissimi piani emergenti dalla penombra. Profili spettrali ottenuti (da Vittorio Storaro) con un uso sapiente, magistrale, dotto del chiaroscuro. Un faccione bulimico che non ha bisogno di protesi (come in Il padrino) per ostentare mandibole e arco mascellare. Un mumbling che è tanto più persuasivo in quanto biascica discorsi farneticanti e frasi senza senso, o, meglio, connotate da un senso impervio che sovverte valori e princìpi.
Dennis Hopper nelle sembianze del "Fotoreporter Flipper"


La funzione      umana
come capro      espiatorio
In un inquietante monologo, Kurtz loda la ferocia sanguinaria e priva di scrupoli dei vietcong, prendendo ad esempio della loro perfezione guerriera l'occasione, da lui vissuta in prima persona, in cui tagliarono il braccio a tutti i bambini di un villaggio che vennero vaccinati dagli americani contro la poliomielite. Chef, rimasto sempre a bordo dell'imbarcazione, viene decapitato, ma Kurtz vuole risparmiare Willard, perché lui solo possa decidere il destino del colonnello e perché in futuro possa raccontare tutta la verità alla sua famiglia.
Emblematico il discorso di Kurtz a Willard, in cui gli dice "tu hai il diritto di uccidermi ma non hai il diritto di giudicarmi". È come se, su questa ultima spiaggia di un cinema che sfida se stesso e si propone come esperienza estrema, venisse a configurarsi nelle sue più estreme manifestazioni anche l'intero repertorio brandiano, il suo giocare con le pause e le sopracciglia, il suo sprofondare in mormorii e sguardi ossessivi, il suo sogghignare, sbuffare, gesticolare. Così come ha saputo sconsacrare e sfigurare il proprio stesso mito per ricostruirlo. Marlon Brando con Laurance Olivier sono "Gli Attori". Sopra a loro nessuno.

lunedì 17 marzo 2014

Train De Vie, et de la poésie

Treno carico
di vita e    poesia
di Matteo Tassinari
La traduzione italiana di Un treno per la vita è senz'altro coerente alla vicenda narrata da Radu Mihailenau. Il treno del film, infatti, è davvero un mezzo capace di salvare la vita grazie ai suoi vagoni, come una nuova arca di Noè. Gli ebrei del piccolo shtetl (definizione utilizzata in Europa per gli insediamenti con elevata percentuale di popolazione di religione ebraica), trovano riparo dal diluvio nazista che in quel medesimo scorcio di tempo sta sommergendo l'Europa e il mondo intero con ferocia mai vista. Anzi: l'affermazione della vita risulta essere tanto più trionfante proprio perché ad un treno è affidata la salvezza di quella comunità ebraica, vale a dire ad un mezzo che i nazisti impiegavano, invece, “per la morte”, per la deportazione nei campi di sterminio.
"Dopo Auschwitz non è
più possibile scrivere       poesie"
(Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno)
La capacità di trasformare il patibolo in una opportunità di salvezza non solo dice la regalità sabbatica del popolo ebraico e la sua capacità di resistenza al male (paradigmatica è la bellissima sequenza in cui il rabbino mette in salvo i rotoli della Legge), ma smentisce pure la sentenza di Adorno, secondo cui, dopo Auschwitz, non sarebbe stato più possibile scrivere poesie. L'unica attenuante per Adorno è quella di non aver visto Trein de vie. La sua poesia nasce dal coraggio, da parte del regista Radu Mihăileanu (la cui famiglia fu internata in un lager) di fare seriamente i conti con il divieto adorniano e di assumere, giusto nella poesia, il peso di quel tempo abnorme e smisuratamente aberrante. I personaggi del film sono tutti intrisi di poesia, dal rabbino al macchinista, dal sarto al ciabattino, dal contabile a Mordechaj, il mercante di legnami incaricato di condurre gli abitanti dello schtetl.
Ora bevono       fuoco per porre il dono celeste
Ma il più poetico di tutti è Shlomo. Il matto, l’idiota del villaggio, senza il quale, però, quel villaggio e il mondo stesso non sarebbero più. È lui che racconta la storia, è lui che imbastisce le trame, come si capisce nell'ultima, folgorante inquadratura, ed è lui l’unico a piangere in tutto il film quando confessa alla ragazza, la quale gli domanda se non abbia mai desiderato una donna, che proprio lei è quella donna. In realtà sono le lacrime di un popolo, non sono solo le lacrime di un ragazzo. Le gocce salate che fuoriescono dagli occhi parlano di una patria lontana, di una meta che da sempre lo attende e che pure, sempre, gli è negata, un desiderio di normalità che resterà irredento. Dicono, quelle lacrime, quanto sia terribile essere un poeta, perché questi hanno il compito di visitare gli spazi frammezzi dove gli dèi comunicano solo per cenni e di offrire ai mortali la luce divina, dopo averne provato le ustioni sulla propria carne, come il satiro Marsia.

E' triste
la notte di    Shlomo
A Shlomo si   addicono questi stupendi versi di Holderlin: “E per questo bevono ora fuoco celeste, i figli della Terra senza pericolo. Ma a noi spetta, sotto le folgori del Dio, restare a capo scoperto, il fulmine del padre, anch’esso, afferrare con le mani e avvolto nel canto porgere il dono celeste”. Ecco, compito del poeta è di mostrare quanto sia “triste”, ma anche “sacra” la notte.
E triste è la notte che Shlomo, nella sequenza con cui si apre il film, annuncia alla sua comunità le tenebre che ha scorto al di là dei monti, in uno schtetl vicino, sono a tal segno fitte che non pos­sono essere riferite a parole, ma solo attraverso gesti concitati e scomposti.
 I singhiozzi del profeta
Ecco che allora gesti, azioni, parole apparentemente inspiegabili, assumono valenze così importanti che pesano ancora e penso per sempre sulla coscienza del mondo e di chi decide come devono gli altri, l’abominio delle bestie. La corsa forsennata di Shlomo per il bosco, è l’annuncio dell'indi­cibile e dell'inaudito. E’ rivelazione di una ferita che mai più si rimar­ginerà perché ogni limite è stato superato. Pare di sentire i singhiozzi del profeta Geremia: “Per la ferita della figlia del mio popolo, l’or­rore mi ha preso”.
     Dopo la    notte 
sacra e ogni volta sempre più corta, il giorno coi suoi orrori alto si alza. Eppure il poeta sa anche che la notte è “sacra”, perché dopo di essa giungerà il giorno. Ciò che resta, ben poco ma protetto e solenne, è dono dei poeti se vi è una salvezza dal nulla e mai l'umanità è stata sul punto di perdere se stessa come durante la Seconda guerra mondiale, quando la Germania Nazista di Hitler sembrava che stesse per avere la meglio nel mondo.
Sublime follia
è la capacità di ridere del proprio dolore e soprattutto della violenza di cui si è fatti bersaglio, perché solo attraverso il riso si può esorcizzare la possibilità di diventare, a propria volta, oppres­sori. Per sottrarsi alle spire del male, infatti, non di rado si assume un atteggiamento mimetico nei confronti dei persecutori. E’ ciò che ac­cade nel film agli ebrei travestiti da nazisti, che alla lunga finiscono per prendere troppo sul serio la loro parte. Contro questa tentazione il miglior vaccino è, appunto, l'umorismo, come comprende bene Schmecht, l’insegnante ebreo di tedesco, quando suggerisce a Mor­dechaj che, per ripulire il tedesco dalle inflessioni yiddish, basta eli­minare qualsiasi traccia di umorismo, perché “lo yiddish è una paro­dia del tedesco con dentro l’umorismo”.
Dio         scelse Mosè
 il     balbuziente 
L'umorismo ebraico, è la consapevolezza della relatività di ogni cosa umana dinanzi all'Assoluto, e, dunque, è la demistificazione di qual­siasi idolo, anche quello del comando. In Train de vie umoristico è il solo fatto che lo stratagemma del treno sia stato escogitato dal “matto del villaggio”. Tuttavia, se ci si riflette bene, il film ripropone ciò che avviene nella Bibbia, quando Dio sceglie il balbuziente Mosè quale guida per il suo popolo, o quando elegge lo zoppo Giacobbe campione eponimo del popolo di Israele. “Solo io sono scampato per raccontartelo”.
Le parole del messo,
che annunciano a Giobbe la morte dei suoi figli, sembrano vibrare anche nella voce di Shlomo nella raggelante inquadratura che suggella il film. Questi, con la divisa a righe, numerato, si trova dietro a un filo spinato. tuttavia c'è quel senso di vivacità di fronte alle disgrazie. quell'autoironia che filtra e riflette il mondo intero, quella litigiosità vigorosa che aiuta a procedere il cammino umano, quell'incredibile eterogeneità di vedute sulla vita. Certo, è una comicità in cui s'annida sempre la tragedia dell'Olocausto e che non spinge a chiudere gli occhi davanti agli orrori dei tedeschi, il popolo più pazzo se colpito da un'"aneurisma" isterico nazionale. Una comicità che tuttavia trascina lo spettatore al ritmo delle musiche ebraico-gitane di Goran Bregovic, in un'allegria feroce, non buonista, capace di sovvertire anche un elemento così macabro ed indicibile come l'Olocausto. Che ne è dei suoi compagni di viaggio?
Il     treno     immaginario
passò di qui, fu poesia 
Anche  per essi la stazione d'arrivo è stata il Lager? Tutto il racconto deve essere inteso, allora, come un'opera di fantasia di Shlomo? Se si prende per buona questa lettura, il titolo del film acquista nuovi, sorprendenti significati. Attraverso la forza della narrazione, il treno immaginario su cui sono saliti Shlomo e gli altri ebrei diviene paradigma compiuto della capacità letteraria di salvare dall'oblio le piccole storie di cui è trapunta la quotidianità, e di illuminare il rapporto che intercorre tra queste e il tumultuoso Spirito del tempo.
Solo la letteratura,
i ricordi, canzoni, poesie, scritti, trasformano in carne e sangue ciò che per la storia non è altro che una successione di eventi e di date. Se abbiamo un'idea di cosa sia stata la Shoah, è proprio grazie a uomini come Shlomo e Mihailenau, che hanno avuto il coraggio e la forza d’imbarcare su un treno immaginario gli amori e le gelosie, i sogni e le speranze, le piccole gioie e le grandi pene della vita di ognuno. E allora, che male c'è a sorridere apertamente delle avventure strampalate di Mordekai, finto generale nazista e amico degli ebrei scampati alla morte, fuggendo su di un treno improvvisato, auto deportandosi verso la Terra Santa e la Salvezza.