"Ave alle donne, come te, Maria"
di Matteo Tassinari
"La Buona Novella" è ritenuto da De André stesso il suo lavoro più
riuscito, quello più rotondo e profondo. "Quando scrissi 'La buona novella', era il 1969. Si era in piena rivolta studentesca e le persone
meno attente, che poi sono sempre la maggioranza di noi, compagni, amici,
coetanei, militanti filosofanti, improbabili movimenti artistici, consideravamo quel disco come anacronistico". A quanto pare le cose non sono per niente cambiate da allora. Mi dicevano: "Ma cosa stai a raccontare la storia della predicazione di Cristo mentre noi ci sbattiamo per una realtà migliore?! Noi scendiamo in piazza, facciamo anche a botte se è necessario, transenniamo, picchettiamo., difendiamo i nostri diritti dall'autoritarismo del potere, dagli abusi degli apparati, dai soprusi delle autorità precostituite, e tu ci vieni a parlare della Madonna?"."Non avevano capito"
De André concluse quella pagina con le seguenti parole
"Non avevano capito, almeno la parte meno attenta di loro, che 'La Buona Novella' è un'allegoria dove si paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del Movimento Sessantottino, a cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell'autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali".
La presentazione de "La Buona Novella" di Fabrizio De André
e le critiche subite dal Movimento 68ino
In direzione ostinata e contraria
Quando gli fu chiesto per quale motivo, negli anni della
contestazione giovanile, un cantautore rivoluzionario come lui avesse scritto
un concept-album dedicato a Gesù Cristo, rispose: "Perché Gesù Cristo
è il più grande rivoluzionario della storia". Pertanto urge la scelta di
puntare e approfondire i Vangeli apocrifi come traccia da seguire per elaborare
la trama del concept-album. Un modo questo per scoprire la vocazione umana,
terrena, a volte sofferente, dolorante e quindi provocatoria e rivoluzionaria
della figura di Gesù di Nazareth. La narrazione inizia raccontando L'infanzia
di Maria. La giovane Maria - secondo Faber - vive un'infanzia terribile,
segregata nel tempio ("dicono fosse un angelo a raccontarti le ore, a
misurarti il tempo fra cibo e Signore"). L'impurità delle prime
mestruazioni ("ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità
che si tingeva di rosso") provocò il suo allontanamento e la scelta
forzata di uno sposo. Il matrimonio avviene con un uomo buono ma vecchio, il
falegname Giuseppe ("la diedero in sposa a dita troppo secche per chiudersi
su una rosa") che la sposa per dovere e rispetto alle regole del tempo e
ai Sommi Sacerdoti del Tempio e lasciarla da sola per 4 anni per lavoro.
Giuseppe, 70enne, torna, |
trovando Maria incinta di un Angelo
"Il sogno di Maria", Fabrizio De André
al violino il figlio Cristiano poli-strumentista
*Due parole, un ambiente*
al violino il figlio Cristiano poli-strumentista
*Due parole, un ambiente*
"Nel grembo umido, scuro del tempio, l'ombra era fredda, gonfia d'incenso.
L'angelo scese come ogni sera, ad insegnarmi una nuova preghiera.
Poi d'improvviso mi sciolse le mani e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese, conosci l'estate io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento"
L'angelo scese come ogni sera, ad insegnarmi una nuova preghiera.
Poi d'improvviso mi sciolse le mani e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese, conosci l'estate io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento"
"Tre croci per chi insegnò a diseratare"
Al "Ritorno di Giuseppe" si coglie la fatica della
vita dell'uomo davanti ad una possibile "fuga", quasi impossibile a credere. Nel suo ritorno a casa Giuseppe porta una bambola di pezza in regalo a Maria e la
trova implorante ad un segreto che le lievita il ventre. "Il sogno di Maria" riporta la scena nel
tempio. In un sogno l'angelo, che usava farle visita, la porta in volo lontano
"là dove il giorno si perde da solo". Lì, le dà la notizia della futura
nascita di un bimbo.
La Maternità
Alcuni testi apocrifi alludevano ad un concepimento più terreno di quello
raccontato dai vangeli canonici. Al risveglio Maria capisce di essere incinta
("parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno ma impresse nel
ventre") e si scioglie in pianto. La maternità inaspettata ("ave alle donne come te
Maria, femmine un giorno, poi madri per sempre"), si esprime in "Ave
Maria", un omaggio alla donna nel momento del concepimento come fonte primaria della vita. Dalla letizia che traspare in "Ave Maria" il passaggio a "Maria
nella bottega d'un falegname" è drastico. Il ritmo dato dalla pialla e dal martello scandiscono il dolore straziante del falegname che costruisce la croce ("Tre croci", due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare") con la quale il figlio di Maria ed i due ladroni verranno crocifissi. Infine sotto la croce stessa: "non fossi stato figlio di Dio t'avrei ancora per figlio mio". Questo aspetto è completamente trascurato dai Vangeli canonici. Via della croce è una delle canzoni in cui De André lascia trasparire i suoi pensieri e i suoi sentimenti anarchici: "il potere vestito d'umana sembianza ormai ti considera morto abbastanza". Ne "Il testamento di Tito" vengono elencati i dieci comandamenti, analizzati dall'inedito punto di vista di Tito, il ladrone pentito crocifisso accanto a Gesù, i nomi dei ladroni variano da vangelo a vangelo (Dimaco Gesta e Tito Disma).
Un Vangelo apocrifo ritrovato a Qumran sulla riva occidentale del Mar Morto, l'attuale Cisgiordania e vicino alle rovine di Gerico
inaspettata
Il testamento di Tito
I cretini, di cui Benedetto Croce
Fabrizio De André, 1998, ultimo concerto per sempre. Sul
palco suona insieme al figlio Cristiano e Luvi (Ludovica Vittoria), una delle
tre coriste, esisterà mai per un cantante una soddisfazione più grande di
questa? Dall’album "La Buona Novella", canta l'innamoramento promesso
per sempre, quello di "Tre
madri". Oggi va anche di moda dire che De André era un poeta, quando si
conosce Marinella, Bocca di Rosa e al capolavoro che è "La guerra di
Piero", purtroppo anche ai capolavori si fa l'abitudine. Del resto, lui stesso, ha sempre rifiutato l'appellativo di poeta
per quanto lusinghiera e sentita, foss'anche la cara amica Ferdinanda Pivano a
dirglielo, ma a Faber metteva paura. Lo poneva in uno stato di timore d'essere
giudicato e per questo rifiutava coscientemente ciò che significa essere
un poeta. Disse: "Il mio lavoro ha bisogno di note e parole. Fra le due preferisco le parole."
Scrivere poesia è un bisogno, non un modo di presentarsi. Su questo aspetto, Faber, disse in varie occasioni che il filosofo Benedetto Croce stigmatizzava e stanava così i presunti poeti: "Fino a 18 anni tutti scriviamo poesie. Da quell'età in poi solo due categorie continuano a scriverle. I poeti e i cretini". E Internet, Feisbuc più di tutti fra i Social Network, ha sdoganato una schiera di nuovi "presunti poeti" che grazie alle tecnologie scrivono obbrobri nel nome di una poetica globalizzante, in stile prendi tre paghi due, dove tutto è "profondità, amore, dolcezza e confini", appunto... i cretini di cui Croce.
Dedicato a tutti i "poeti" del Web |
Il Palazzo
del mistero
Ma Faber, poeta, lo era eccome. Altro che storie. A testimoniarlo non sono le mie quasi inutili parole o quelle più nobili d'altri, ma sono le 233 canzoni che ci ha lasciato, come uno scrigno zeppo di pietre e colmo di diamanti preziosi in parole e note. Certamente, non come fece il "Rolling Stone", l'edizione italiana, che 2 anni fa impostò un'inchiesta più pensosa che penosa, bugiarda e vigliacca sull'artista. Il titolo recitava imponente a tutta pagina: "De André: giù dal trono!" come se avesse fatto qualcosa per salirci. Violatori di una vita vissuta con meno ipocrisia e un'umanità smisurata col suo amico poeta Colombiano Alvàro Mutis o Riccardo Mannerini (poeta, morto quasi cieco) con cui visse nei carruggi dell'angiporto nella mitica via Prè, da dove inizia "Via del campo", bevendo una bottiglia di whisky al giorno, quando suo padre era padrone di mezza Genova essendone il vice sindaco e amministratore di industrie note in Italia come l'Eridania e gruppo Ferruzzi di Ravenna. Tornando all’immagine di Maria disegnata da De André nella canzone, è di una dolcezza che ogni vangelo potrebbe anche integrare, per non scrivere invidiare. Ogni errore si paga.
Fabrizio in compagnia del suo amico e poeta Riccardo Mannerini
|
Bagnato
da molte lacrime
E' avvenuto sul Monte Calvario (dal latino
"Calvaria" che significa "luogo del cranio") davanti alla
crocifissione. Ai lati di Gesù ci sono le croci di Tito e di Dimaco. I due
ladroni che stanno morendo con lui, che condividono la sua stessa sorte, nello
stesso posto, allo stesso modo, sotto le croci, tre madri piangenti l'agonia di
chi portò nel grembo. Ma una delle tre, secondo le altre, è più fortunata: sa
che suo figlio è destinato a risorgere. Eppure Maria non la considera affatto
una fortuna. Non è la divinità a parlare in questa canzone. E' il sangue, è la
disperazione di una madre che conta gli ultimi respiri del figlio, che sarà
pure il Re del mondo, ma lei forse, in quell'istante umano bagnato da molte
lacrime, lo vive come figlio suo e parla del suo dolore di donna con le braccia
chiuse sul figlio morente.
Signorina Anarchia
Il mistero delle emozioni accoglie ogni raziocinio, ogni calcolo, tutto il vortice d'orrore si tramuta in un acquazzone di quel venerdì alle 15,30 che iniziò improvvisamente a piovere forte (su questo tutti i vangeli, apocrifi e "ufficiali", sono d'accordo) quasi come a lavare l'onta della violenza umana, capace di ammazzare in Croce chi parlava d'amore proclamandosi figlio di Dio. Una Buona Novella, chissà quanto e come manipolata o "rimaneggiata". L’umanità di Maria in questa canzone trascende la sua divinità, come è vero il suo contrario. Nelle parole di De André, Maria diventa la madre di tutto abbracciando il sacrificio della sua vita stessa per un disegno destinato al libero pensare di ognuno. Concludo, azzardando nel mio claudicante narrare, che non sarei l'uomo che sono se non fossi cresciuto ascoltando la sua voce, le sue interviste, testi, il suo bel volto, note, musica, il suo stile, la personale storia, episodi di altri che Fabrizio ha fatto suoi vivendoli, da Riccardo Mannerini, al regista-concert di Faber, Pepi Morgia, fino a Cristiano e Dori, non potrei dire di essere ciò che sono. Mi sarebbe mancata quella forma d'anarchia che non trova risposta nei poteri istituzionali fino ad essere convinto che è vero, non esistono poteri buoni, ma solo poteri con molti zeri e tanti interessi singoli. Tante parole cangianti e nessuna scrittura, proprio come nei campi d'ortiche, ricordi tanti e nemmeno un rimpianto per chi è abituato a farsi piovere addosso, non è un problema.