Notti notturne

lunedì 3 dicembre 2012

Memorandum tossicman

Io a 8 anni, già incazzato. Il mondo non è posto per me
    Serpico a Forlì   



         di Matteo Tassinari
Stavo sbollendo uno dei miei tanti sballi in piazza Saffi, quella centrale, sotto i portici della chiesa san Mercuriale. La mia residua attenzione fu rapita da una serie di camionette di Vigili Urbani e Questura e auto in borghese più un blindato per eventuali viaggi verso le prigioni. Ai miei occhi, già di loro espressione di una vasta e forte alterazione in corso, sembrava di assistere allo sbarco in Normandia. In realtà era una delle tante retate del corpo Vigili Urbani sezione antidroga, capitanata da un certo Tatti che aveva sollecitato anche la Polizia capitanata dal commissario De Viola.
Psiche
rov ente
Lo chiamavamo Serpico (o Eliminatore Rovente) e come per tutte le uniforme, non eravamo altro che rifiuti tossici. Tatti, nel suo potere, si trastullava a tutore impavido della legge, tracotante, aggrovigliato nelle proprie forsennate pulsioni da capo-branco o mandriano, destinato a perdersi nei confini devastati della sua realtà in una ciurma malsana. Una fiumana infinita e ardimentosa di prodi temerari, manco fossimo dei narcotrafficanti. Aspirava a salire di grado, Tatti, perché si sentiva il più in gamba. Per assicurarsi uno scatto di carriera si dedicava a giochini di cui era maestro: trucchi, anche abietti, per danneggiare e confondere eventuali rivali. Tatti era un umiliatore per vocazione. In lui, era innato il senso del potere ‘sbirresco’, nel senso più deleterio del termine, quello che ti fa sentire un Eliminatore per giustizia personale e sociale, quindi autorizzato dalla società civile, legalizzandolo a prenderci a schiaffoni solo se gli andava. Una persona orribile, che avrei preferito non conoscere mai.
Federico Aldrovandi, ucciso la notte del 25 settembre 2006
dopo una colluttazione con una pattuglia della Polizia
Terminator
a Forlì
Un uomo prigioniero di un cervello arroventato, vittima della propria personalità patologicamente scissa. In tanto baccano mentale, penso che si sia fatta ampio spazio l’idea che la verità umana di noi tossici, non poteva che essere cagata, stracciata, deforme e falsa. In tale disfacimento psichico, c’era posto solo per l’inutile ragionevolezza che proveniva dalle sue viscere più brulicanti. Qualche volta penso che la gente comincia a bucarsi soltanto perché, senza neanche rendersene conto, ha una gran voglia di un pò di silenzio.


Tatti era soggetto che al confronto Rudolph Giuliani diventava un cricetino domestico. Tutto ciò con i dovuti distinguo, perché tra essere sindaco della Grande Mela o responsabile del corpo antidroga dei Vigili Urbani di Forlì, in mezzo ce ne sta parecchio di lerciume. Ma vai a parlare con uno che sente scorrere nelle sue vene il sangue dei giusti. Comunque sia, si capiva al volo che di noi tossici, a Tatti, gliene fregava quanto gli importava del puzzo che proveniva dalla sua bocca. A lui interessava l’innegabile fatto che gli avevano assegnato una squadra di uomini - fino al giorno prima dediti al far multe nelle aree cittadine come quella dello stadio oppure in quella adiacente al mercato popolare - per poter giocare un po a Terminator alla prese con un’ipotetica Los Angeles proiettata verso il Duemila, zeppa di criminali e narcotrafficanti da sistemare e raddrizzare la spina dorsale.


Per 20 grammi
di cocaina

Purtroppo per lui e per le sue ambiziose aspirazioni di carriera da inquisitore della profonda Romagna eravamo a Forlì, cittadina estesa fra Cesena, Rocca San Casciano, Faenza e Lugo e i quantitativi di droga difficilmente superavano i trenta o quaranta grammi d’eroina. La cocaina non esisteva neppure, perché come giungeva, spariva in un lampo nelle nostre vene. Come arrivava in piazza rimaneva il tempo per preparare l’impasto e scioglierla. Venti grammi di coca potevano scomparire nell’arco di una giornata meno uggiosa delle altre (per chi se l’iniettava) a causa della sua azione potente, invasiva e velocissima. Tornando alla retata di Tatti e del suo plotone di uomini cazzuti, ricordo che ci portarono alla centrale, per lasciarci, singolarmente, ognuno in una stanza diversa
    Gli     altrui fiori               del male              

Mio caro, e ci posso far qualcosa io se il giglio è pederasta, se puttana è la rosa, lesbica è la vaniglia? E il narciso, quello specchio di candore, si masturba quando è in petto alle signore. Misero pasto delle passioni. Levai la testa al cielo per trovare respiro e mi sembrò giungere dalle stelle per pungermi con malefici bisbigli, e il firmamento mi cadde addosso come una coltre di spilli. Prono mi gettai sulla terra bussando con tutto il corpo affranto: basta! Basta! Ho paura. Dio, abbi pietà dell’ultimo figlio. Aprimi un nascondiglio al di fuori della natura”.
     Aldo Palazzeschi: "I fiori"


 Dolce, dolcemente
"Dolce dolcemente, a un passo, dall'infinito abisso, d’amore parlasti al mio senso corroso, al mio intelletto tarlato, al mio urlar rugginoso, al mio cuore intristito, al mio voler putrefatto. Dolce, ti avvicinasti, e teneramente fosti Madre, Sorella, Puttana, Sposa
Enzo Fabiani, "La sposa vivente"
         ""Mi depositarono in cella tutto il giorno"
Quei signori della serie "adesso mettiamo a posto tutto noi", gonfi e tronfi di un insano senso della giustizia e privi d'ogni opera umana, avevano a che vedersela con tossici allo stato puro, per di più malconci. Non criminali, figuriamoci mafiosi. Ma la dura legge tra la via Emilia e il West, secondo il Tatti-pensiero-forte, non ammetteva distinzioni di sorta. Regole rigide e poche, come le idee. Così ci riservò per l’occasione un trattamento degno del defunto Pablo Escobar, noto trafficante internazionale di cocaina colombiano del fu cartello di Medellin. Non so cosa successe agli altri, so quello che capitò a me. Mi legarono con le manette ad un termosifone e per un pochetto (non riuscivo a quantificare il tempo) rimasi solo in una stanza semi vuota. C’era un tavolino, una sedia e uno scaffale. La voce aveva un effetto di ritorno come un’eco, talmente era vuota la stanza. Mi depositarono lì per un’oretta. Grazie a Dio non avevo addosso neppure mezzo grammo di haschish, per cui le mie coronarie erano abbastanza agiate, nonostante tutto.
Ci  siamo noi, Tex e il Cinese, niente paura

"Sporco drogato
di merda"


Improvvisamente si aprì la porta ed entrò uno dei segugi di Tatti, sulla quarantina, baffi spessi, pancia meritoria di aver oltrepassato il quintale e un’altezza pari a circa un metro e ottanta. Insomma, un affare d’uomo che quando ti si piazza di fronte e con fare minaccioso e catatonico ti chiede: “Dov’è la droga? Dimmelo o ti spacco il culo, sporco drogato di merda” può avere un suo certo effetto persuasivo. Perché i termini, quando portano in centrale un tossico da ‘spennare’ (come ho sentito dire da due poliziotti) sono questi. Sono, o almeno erano, cazzotti nella faccia a pugno chiuso o dita chiuse di botta nel cassetto del tavolo, oppure tirate di capelli fino allo strappo delle ciocche. Infine eccolo, dopo l’ingresso di un’altro segugio. Prima di vederlo ricordo di averlo sentito schiamazzare a voce alta, un metodo per incutere in me riverenza e timore nei suoi confronti. Eccolo, in tutta la sua folgore. Era in borghese. O meglio, era in assetto di guerra: blue jeans scoloriti e strappati, stivaletti di cuoio nero e borchiati, un’ancora marinara finta tatuata sul braccio, occhiali Ray Ban scuri appesi alla camicia a fantasia aperta sul pelo nero del petto. Tatti pensava che noi non lo conoscessimo e per questo si adoperava in travestimenti ridicoli. Una volta cercò d’intrufolarsi fra noi, chiedendoci della roba col passamontagna per non essere riconosciuto e masticando la voce nel tentativo assurdo e patetico di non farsi riconoscere. Ridicolo o meno, quel sacripante d’uomo adesso era lì di fronte a me, con lo sguardo cupo e degli strani guanti di pelle nera.
Nelle mani della     Legge  
Mi chiesi a cosa servivano, da lì a poco lo capì. Mi parlava da lontano mentre gli altri due tizi mi guardavano con occhi privi di compassione, con lo sguardo della gente che sa di essere dalla parte del giusto, per cui, da parte loro, non era possibile nessun tipo d’errore, un po’ com’è accaduto in molte comunità terapeutiche. Io ero sempre legato con le manette al calorifero, come fossi un altro elemento del termosifone. Ero in mano a quella che definiscono Legge o Forze dell’ordine. Intanto il boss della centrale blaterava chiassosamente (tutti, in mia presenza, parlavano a voce alta) e io non capivo che cosa volessero da me. Penso fosse volutamente evasivo. Tuttavia, capì che non aveva nulla contro di me e quello che cercava di "esercitarmi addosso" era mettermi un bel po di paura per incastrare chissà chi e fare il nome di un qualsiasi spacciatore di droga. Per Tatti non faceva differenza chi fosse. L'importante era riempire celle già sovraffollate.  


O    mi sbaglio?
A lui, per sua formamentis, bastava portare in carcere qualcuno per droga, una fissazione. Mi si avvicinò con un sorriso di plastica stampato sulle labbra per dirmi:“Allora, Matteo, non vorrai far stare in pena i tuoi genitori. Li conosco, lo sai. Se vuoi li chiamo al telefono proprio ora, poi gli spiego dove ti trovi e cos’è successo. Suuu, dimmi chi è che sotto i portici spaccia più degli altri. Fa il bravo, non spazientirmi! Tanto so che tu queste cose le sai. O mi sbaglio?!” con tono di voce sempre più cavernicolo e spazientito, le cose mi pare vadano anche da se. Spiegai a Tatti che ero un pendolare, che l’eroina andavo a comprarla a Ravenna e Faenza da gente di cui conoscevo solo il nome e che erano al di fuori della sua competenza d’intervento e poi i nomi li avrei inventati anche li avessi fatti: che ne so Gialuigi Carlinotti, oppure Filippo Giamberelletti. Non mi andava affatto d’incasinare qualcuno per la merdosa carriera di un lardoso privo di ogni tratto, anche primordiale, di civiltà o tenerezza. Io ero un tossico, per cui non ero certo nella situazione di esprimere giudizi equilibrati. Ma su Tatti, ancora oggi che tossico non lo sono più, la mia opinione non è affatto mutata.

L'epitaffio è tratto da un brano di Fabrizio De André

Tutto è lecito
quando     si è "illeciti"
Per farla breve, era il classico tipo fortissimo con i deboli e debolissimo con i forti. Feci capire che non avevo alcuna intenzione di firmare una qualsivoglia denuncia presa a caso dal mazzo delle pratiche, oppure di collaborare in altro modo, non so, facendo nomi e cognomi a ruota libera, senza suggerimento o senza dover sottoscrivere nulla, solo informazioni. Non era importante tanto la colpevolezza di un tossico, era necessario dimostrare che il corpo Antidroga dei Vigili Urbani di Forlì, funzionava e che quello che era considerato come un esperimento pilota, poteva divenire un esempio esportabile in altre città d’Italia. D'altronde tutto è lecito quando si ha a che fare con l’illecito. Anche l’immoralità e le botte. Gli dissi chiaro che non sapevo nulla, ch’ero fuori dal giro e per tutta risposta Tatti, oltre che ad incazzarsi, mi mollò un ceffone nella guancia destra. Perse le staffe e avvicinandosi ulteriormente mi urlò in faccia: “Guarda che ti caccio in prigione stronzo di un ladro tossico. Se non mi dici quello che voglio sapere ti sbatto dentro per un anno. Non preoccuparti per l’accusa, la trovo io”. Mi era così vicino al volto che mentre parlava, eccitato com’era e totalmente immerso nella parte di chi deve insegnare ai suoi colleghi come si fa un Terzo grado coi contro-cazzi, mi sputava consistenti particelle di saliva molto puzzolenti sulla faccia.


                
      "Rila scialo,

‘sto      qua"

Ero pronto a portare a casa un po’ di lividi. Era nel conto, anche se non avevo fatto nulla a nessuno. Pam! Pam! E poi ancora, Pam! Tre botte in simultanea frequenza alle orecchie con i palmi delle mani aperte. Avvertì un dolore lancinante che attraversava la testa tutta per varie volte, per poi vedere un’infinità di luccichii come quando la pressione cala improvvisamente. Non avevo alcuna voce in capitolo. Era chiaro, e questo mi creava ulteriore paranoia. Ero nelle loro schifose mani, a tutti gli effetti. Tatti mi parlava, anzi urlava, ma io ero così stordito che non distinguevo neppure una voce da un’altra. Le parole a quel punto erano solo suoni incomprensibili. Pam! Un’altra botta ai timpani da stendere un toro. Iniziai ad urlare e a piangere dal dolore, mentre cercavo in qualche modo di difendermi:  “Non so niente. Io le storie di roba non le faccio. Non so chi spaccia a Forlì”. E stremato mi lasciai andare a terra come chi capisce che da se stesso non dipende nulla, bensì capisce che a decidere, erano gli altri. “Rilasciatelo ‘sto qua. Io vado dai suoi colleghi a fare quattro chiacchiere” chiosò Tatti. I miei colleghi erano tossici come me, "colpevoli" come me di tante cose, non ci piove, anche se in quel momento di completa confusione non seppi identificare di che cosa.

Ti dico questo. Io ho ucciso, ma per farlo ci ho impiegato un secondo, il tempo di accendere un fiammifero, tac, di schiacciare il grilletto. Ma questi qui, nel braccio della morte, ci stanno impiegando dieci anni. E non è ancora finita”!
                                       Carcere Huntsville, detenuto prima d'essere ucciso