Il messaggio finale di tutte queste parole, è questo!
La timidezza
di Pippi
Pippi (anche di lui ho perso traccia) aveva appena
affogato la sua timidezza siderale (il tossico più timido e dolce del mondo) in
un liquido dal colore marrone. Vanni (mentre scrivo mi dicono che è in stato
terminale-Aids, ma adesso si è ripreso, ma gli hanno dovuto amputare una gamba) dal ciuffo biondo e libero, lanciato
come una freccia in quella dimensione oppressiva e vuota di colore e forma. Spumino (di cui non so nulla) lo si vedeva arrivare in lontananza
e ciondolare un po qua e un po la, sbattendo il muso contro numerosi
lampioni. Jackie (morto di Aids) era in uno stato pietoso di astinenza: occhi
come due orbite spaziali protesi verso l’esterno, un sudore da congela
nonostante fosse estate piena, dita vibranti come le mani di un malato di
Parkinson, pieghe che rendevano il volto uno straccio stropicciato e uno
sguardo intriso di disperazione. La gente passava di lì, gettava qualche
curiosa occhiata per scrutare cosa facessero quegli strani ragazzi.
La Mistura
Era
l’inizio degli anni ottanta e i tossici d’allora, molto più appariscenti di
quelli di oggi, stavano lì in quella gabbia di vetro senza confini alla mercé
degli sguardi altrui. Denti marci, deliri pesanti, braccia tumefatte a forza di
spingere con l’ago, calli color giallastro sulle vene per formare una sorta di
fessura-flebo sempre aperta e pronta all’uso, stitichezze di
settimane a causa del limone per sciogliere i caccoli di Brown Sugar, emicranie
alla testa e febbri fino a 40 gradi a causa dei tagli che gli spacciatori
usavano per aumentare le quantità. Un esempio di gioventù che non
voleva essere quello che praticava, una generazione di sconfitti senza aver mai
gareggiato. Sconfitti nei sentimenti e nella tenacia di architettare qualcosa
di valido, capaci solo di alzarsi dal letto con il pensiero fisso di racimolare
qualche decina di migliaia di lire per affondare ulteriormente nella fanghiglia
dove ognuno di noi si ritrovava.
e rughe che
disegnavano le nostre facce bizzarre e destini beffardi, quando non erano
crudeli. Nella sua innocente rabbia, il Lando, (morto, si dice di Aids e temo
che sia vero) era uno dei figli più rappresentativi di questa parte mondo oggi
scomparso e deviato. Una sera ci sconvolse fino al panico a tutto tondo, al
sottoscritto e William Cipolletti, quest’ultimo un mezzo gangster gentiluomo
dalla chioma bionda e lunga, età avanzata, un certo giro di amici importanti
legati al mondo dello spettacolo e tante cazzate varie, molte delle quali lo
stesso Cipo pompava a dismisura, quando non erano inventate del tutto. Un vero e proprio smargiasso millantatore. Aveva una gran bella voce, cavernosa, profonda, che gli dava un tono di autorevolezza e che fosse pieno di donne era vero, gli va riconosciuto, nonostante il rodomonte trombone che era. Eravamo nel viale di Faenza, quando l’orologio del centro suonava le quattro del pomeriggio, tutti in attesa della stessa cosa.
Il tipo con la roba ci lascia a cuocere in una sfibrante
attesa. Le attese più interminabili che abbia mai vissuto, che a confronto,
stare sotto il sole per due ore e mezzo sull’autostrada in agosto con una sete
da arsura e senza alcun liquido in cui affogarsi, era un’attesa da invidiare.
Una fauna umana senza bussola. Una mandria di tossici sempre più mangiucchiati
dagli innumerevoli down, secondo dopo secondo, istante dopo istante, singhiozzo
dopo singhiozzo. Per questo molto pericolosi. Fisici secchi attraversati da
brividi, ossa rotte e l’armamentario sempre pronto in qualche tasca di giacconi
pesanti, perché i tossici, si sa, hanno sempre freddo.
L’armamentario era composto da spade quasi sempre usate e
da più persone, un coccio di barattolo di Coca cola o un tubetto di Saridon
dove poter sciogliere l’ennesima dose di calma piatta e partire per un viaggio
di pace della durata di qualche ora per ripiombare in una dimensione che
con la sfera dell’umano ha poco da spartire. C’erano anche gli sprovveduti, i
più, a cui si doveva prestare tutto questo genere di cose. Roberta aveva appena
finito di scopare con un muratore, una marchetta: “Ogni tanto ci vado -
raccontava -. Lo conosco bene ed è gentile, anzi timido e so in quale cantiere
lavora. Scopiamo sul posto. C’è da guadagnare parecchio lì” dice rivolgendosi a
Paola con un volume di voce che l’avrebbe sentita chiunque fosse stato a pochi
metri di distanza da lei. “Adesso poi - riprende - si sono aggiunti altri suoi
due amici che hanno portato un materasso, così abbiamo anche un posto dove
stenderci. Oggi me li sono scopati tutti e tre per cento mila lire”.
Un’insana
trepidazione
Paola
parlava con naturalezza di quanto combinava con i carpentieri, talvolta
anche cinquantenni. Una volta l'incontrai nel viale col vestito tutto impolverato di polvere di cemento. Glielo dissi, si guardò e mi ringraziò per poi andarsene con Gemma senza pulirsi. Ma tutti i discorsi che stavamo facendo, improvvisamente
saltarono e le occhiate cambiarono direzione all'istante, quando con l’arrivo del pusher
scattò un’agitazione mista ad iper-agitazione in ebollizione generale. “Ecco, ecco... Marco! Vai,
è arrivato... C’è Marco... c’è Marco, c’è Marco”. “Ma dov’è?”. “La in fondo,
sta arrivando con Loretta”, “Dove? Dov’è?”. Un’insana trepidazione aveva acceso
i motori delle nostre percezioni soggettive, come si faceva con i cerini di legno. Pareva fosse arrivato il messia e non penso sia
errato riflettere che l’eroina, per la psiche deturpata di un tossicodipendente,
abbia significati e valenze anche spirituali. Maurizio, recitava un'Ave Maria quando aspettava il pusher affinché non ci mettesse molto tempo. “Allora Marco, tutto a posto?
Ce n’è per tutti?”. Marco fa un cenno con la testa
invitandoci a seguirlo. Lui, su una vecchia Ami 8 bianca con la sua ragazza
davanti a far strada a tutti noi.
Panico nelle vene
Una carovana di disperati in fila indiana, uno dietro
l'altro, sulla via Emilia come in cielo, anche se diretti verso l'entro terra
forlivese per trovare un posto tranquillo dove poter contrattare. In macchina
con me e Cipolletti sale il Lando, senza neppure che ce ne rendessimo conto. E’
la fine e non lo sapevamo. Il Lando esordisce nel suo stile: “Cazzo, non c’ho
una lira e sono in down. Che ne dite se gli porto via la roba a quello là? Ci
state? Facciamo a metà dopo? Me lo mangio quello lì. E’ un pischello da ridere.
Lo so... lo so!!! Lo conosco, sono stato in galera con lui e quando volevo mi
faceva sempre il té. Ed era il suo”. Ammesso - e concesso - che quello di
rubare la roba ai pusher di turno fosse uno degli sport più praticati nel
pianeta dei tossicomani, bisogna far presente, tuttavia, che a quel punto avremmo
dovuto non tanto temere solo lo spacciatore, bensì i tossici in branco e in
braccio ad un esercito di scimmie in attesa di comprare da Marco il proprio
desiderio di sollievo.
Fu allora, mentre Marco stava rovistando il suo
sacchettino per dispensare grammi a destra e a sinistra che il Lando, strafatto
di psicofarmaci e barbiturici e bevuto di Neuroni, tirò fuori un coltello mai
visto. Una lama lunga quanto non si vedeva neppure nei film. Da una parte oltre
30 centimetri di lunghezza, la lama alta 3 dita, la punta smussata in modo da
scannare anche uno Gnù africano e sul dorso aveva la classica dentatura da
caccia agli squali nei Caraibi. Un “ferro” luccicante come la pazzia del suo
tenutario. Il sudore fece ingresso nel nostro sangue.
Uno schizzo
per Lando
Io e Cipolletti, oltre che sentire i primi vagiti di una
nuova astinenza, cercammo in tutti i modi di dissuadere il Lando dai suoi
intenti dissociati, anche se sembrava che non ci sentisse neppure, tale era il
livello di subbuglio mentale: “Adesso io scendo - riferisce il Lando
biascicando ogni lettera che usciva a fatica da una bocca dalle labbra
screpolate -. Voi mi aspettate là, verso quel casolare abbandonato, io gli
punto il coltello sotto la gola e mi faccio dare tutta la roba che ha addosso.
Corro forte quando mi ci metto, non mi prenderà nessuno”. “Ma cosa cazzo
dici!!! Ti sei definitivamente alleggerito del cervello? Non vedi la gente che
sta male e sta aspettando come noi? Li avresti tutti contro, diventerebbe un
gioco al massacro! Un Apocalypse Now senza precedenti. Stanno tutti male e
certuni più di te. Se gli porti via la roba poi ce li hai tutti contro. Lando,
lascia stare, non fare cazzate e lascia perdere. Ti daremo uno schizzo della
nostra".
Quando un tossico in preda all’astinenza e la testa persa in un
ragionamento tutto suo decide di compiere un’azione, logica o illogica non fa
differenza, fino a quando non l’ha portata a termine non c’è verso di
dissuaderlo dai suoi malati intenti. Infatti il Lando non ne voleva sapere e
mentre stava per aprire lo sportello per scendere e rapinare Marco, sempre
William, non so con quale coraggio gli urlò in faccia: “Lando, una pera te
l'offriamo, non so cosa potremmo fare di più e tu capisci quello che dico,
anche se adesso sei cotto. Quello che ti voglio dire, Lando del cazzo, fai quel
che vuoi però a noi lasciaci fuori dalle tue rapine, dalle tue storie, dalle
tue seghe schizofreniche. Lasciaci perdere!!! Okay!!! Non coinvolgerci in
queste storiaccia di merda! Io voglio vivere ancora un altro po’ se mi è
permesso e se non ti dispiace”. Poi tirò il Lando dentro la macchina mentre
brandiva il coltello. Seduto sul sedile posteriore, ero terrorizzato dalla
paranoia che s'incazzasse con Cippo. Intanto il pushers vendeva roba come
frutta, ignaro del pericolo che stava correndo.
"Metti via quella pistola!"
Con quel
coltello impugnato, due occhi rossi come imbevuti nel
cloroformio, una rabbia in corpo da far esplodere un’intera città, il Lando
iniziò a piangere. Intervenni anch’io. “Ascolta un pò Lando. Adesso scendo io,
compro un pezzo (1 grammo) e ci facciamo tutti e tre gli stessi c.c. d’insulina. Non sarà
un perone, però basterà per calmarci un po’”. Fece cenno con la testa che ci
stava, mentre piangeva con le lacrime di un bambino. Io e Cipolletti ci
guardammo negli occhi come se una prima pera ce la fossimo già fatta. Il rischio che ci scappasse una coltellata o forse più era davvero reale, credetemi. Scesi
dalla vettura lasciando Cipo in compagnia del Lando, davvero furioso,
affinché controllasse ogni sua mossa.
“Ora metti via il ferro” gli dico
mentre mi avvio verso Marco per far la spesa. Tornai dopo il trick e track,
avvenuto in mezzo a un campo nascosto da una serie di alberi, che il Lando piangeva
ancora. Niente di trascendentale, per carità. Però, ancora ad una notevole
distanza di tempo (poco più di 33 anni circa) da quell’episodio e da
quel pianto, io non so come interpretare quell’angoscia. Certo, sarebbe molto
più facile e sbrigativo liquidarlo come un pianto dovuto ad uno stato
confusionale, ad un miscuglio di sostanze portentoso, vicino allo shock
anafilattico. In realtà credo che in quelle lacrime navigasse una bufera di
vento che sommergeva anche il vaso di Pandora, pronto non ad aprirsi, ma a
scoppiare, dilaniarsi e spargere tutti i tormenti di un giovane che aveva
congelato la propria esistenza e l’aveva messa sotto formalina. Sul Lando
l’imperfezione aveva vinto e lui pareva non facesse più resistenze.
Chiunque vale più di ogni suo errore
Tornammo sul viale della cancellazione, tutti e tre cotti per qualche ora.
Quel viale tornava ad essere, ciclicamente, il ritrovo di strani mostri. Un
punto di confine tra l’ingloriosa umanità degli esseri umani e la nostra
indifferenza verso tutto ciò che ci ruotava attorno. Gli sguardi, dopo la pera
collettiva, erano ancora più ebeti e fissavano più intensamente il nulla, unico panorama per tutti. Ognuno, nel nulla, s'era ritrovato.
Aveva trovato conforto, aveva
staccato la spina per un pò, il tempo di non pensare a niente per poi sprofondare nel vortice del gorgo. Era giunta la fase post-pera quotidiana,
quando, chi più chi meno, aveva in circolo nel corpo una quantità di sostanze
agognate fino a poco prima. Tutto ciò, avveniva intorno alle
cinque del pomeriggio, ci si arrendeva su quelle panchine e si passava quattro
o cinque ore in attesa di pischelli da bidonare o, più precisamente, fargli un pacco
portandogli via quel pochissimo che avevano, anche dieci mila lire. Ricordo che una volta grattammo in due un pò di muro per 15mila lire, eravamo alla canna del gas. Si procedeva per inerzia, come se
il vivere fosse un dovere o un automatismo e il nostro corpo rivelava la sua
esistenza solo grazie all’ombra che lo seguiva in silenzio. Nella
sua abissale solitudine non si accorge del nulla che lo accerchia, lo
attanaglia e frantuma ogni sua opera, non solo propria, ma anche quelle
dell’uomo nella storia. Nulla ha più senso, ne dentro di me, ne fuori. E oggi non ho più parole.
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