Notti notturne

lunedì 24 giugno 2013

Guccini, l'ultima thule

L'ultima Thule

Songwriter schietto e graffiante. Autore di testi dall'indiscusso valore letterario che gli è valso il Premio Montale, Francesco Guccini è uno dei capisaldi della canzone d'autore italiana. Il suo canzoniere ha mantenuto una ferrea coerenza antagonista lungo quarant'anni di storia, spaziando da riflessioni autobiografiche a invettive politiche. Un mondo di versi e di suoni, in cui, tra un bicchiere di vino, un incontro e un eskimo logoro ci si ritrova a viaggiare su e giù tra la via Emilia e il West con la fantasia giusta e del vino

La Storia passa anche per una "Locomotiva che
viaggiava che sembrava cosa viva"


Ritratto di 

un

cantastorie

         di Matteo Tassinari
Si vive smarrendo tutto, gioie e dolori, come fosse merce che non c'appartenesse, ma alla fine si ritrova tutto, la chiusura dei giochi ci ricorda tutto quello che ci siamo dimenticati, anche nell'arco di pochi secondi può accadere tutto ciò. In una canzone, in un libro, in un racconto, in un fumetto, in una novella orale, in una scopata, in una tenerezza clemente, in un amore montanaro che recita Dante all'impronta, non tutto, ma una buona parte. Guccini ha il dono innato del racconta storie, dell’illustratore a voce (grande dono fatto a pochi) che non ti stancheresti mai ad ascoltarlo, sia per l’ironia che per l’intelligenza acuta e contadina. Un narratore di prim'ordine, come fosse un mestiere lui parlava di tutto accompagnato dalla forza che il buon vino rosso dalle 23 fino alle 5 del mattino nelle casinare osterie di Bologna.

    Il Maestrone
E’ proprio affidabile
il Maestrone, cresciuto a castagne ed erba spagna, vacca di un cane! Di certe favole e peripezie, se hai avuto il beneficio e la casualità di conoscerle, sai a memoria l’inizio, la fine e cosa c’è in mezzo, ma che può variare a seconda dell’umore, del morale e della quantità di vino. Ma ogni volta è come la prima, come per le traversie dei nonni che s'aiutano con la zanetta di collina. Perché il piacere nel captare o ascoltare, nella coloritura della lingua, nelle esagerazioni, negli umori della voce, nel continuo e superbo adattarsi e interarsi alle repliche o reazioni di chi ascolta, nel suo dire sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi, un grande scenario immaginario, un affresco titanico di speranze, aspirazioni, prospettive di ottimi musicisti misti a ciabattari che non riuscivano a prendere un Fa diesis. Nato nell'ormai divenuta famosa Pavàna, un paesino di 800 abitanti ai piedi dell’Appennino, tagliata dal fiume Limentra: “Il suono dell’acqua del Limentra è diverso da qualsiasi altro agglomerato d’acqua esistente al mondo”. Si sa dove inizia, ma non dove finisce e intanto non succede mai niente di preciso. Ci si gratta e si parla bevendo Lambrusco e giocando a marafone, gioco a carte diffuso in Emilia Romagna.
Pavàna come Macondo
Per Guccini, Pavàna, è ciò che Macondo è stato per Gabriel Garcia Marquez in “Cent’anni di solitudine”


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E poi via Paolo Fabbri, con la sua strada placida e alberata, le case rosso mattone e la stazione vicino a ricordarci un’altra Locomotiva. La trattoria da Vito, dove era fisso anche Lucio Dalla, Claudio Lolli e musicisti vari dall’equipe 84 ai Nomadi, sempre uguale, posto rassicurante, come il bowling per “Il grande Lebowski” dei Coen. Mentre fuori a porta san Vitale scoppia il mondo, da Vito potevi tranquillamente tirare tardi fino al mattino, tutto tra una scopa, una puttanata e due quartini. Per il momento. Negli anni ’70, Guccini è sinonimo di protesta. I giovani cantano insieme a lui perché sentono il vigore d’esserci in quel momento, perché l’importante, qualche volta, è proprio l’esserci, il non farsi sempre raccontare o leggere, ma anche cantare in 10mila insieme "La locomotiva" in un palazzetto dello sport, con un ritmo serrato che ti fa provare l'emozione di quel macchinista ferroviere, tal anarchico Pietro Rigosi, 28 anni, sposato e padre di due bambine di tre anni e dieci mesi. Poco prima delle 5 pomeridiane del 20 luglio 1893 Rigosi che s'impadronì di una locomotiva sganciata da un treno merci nei pressi della stazione di Poggio Renatico e si diresse alla velocità di 50 km/h, che per quei tempi era una velocità notevole verso la stazione di Bologna schiantandosi con un treno pieno di signori, quella volta decise Pietro Rigosi cosa fare di loro.
In  una notte
Per la cronaca, il personale tecnico della stazione deviò la corsa della locomotiva su un binario morto, dove si schiantò contro sei carri merci in sosta. L'impatto fu tremendo ma l'uomo fortunatamente sbalzò via durante l'urto e sopravvisse nonostante il violentissimo impatto. Gli venne amputata una gamba e rimase sfigurato in viso. Dopo due mesi venne dimesso dall'ospedale ed esonerato dal servizio in ferrovia per motivi di salute. Più di otto minuti di canzone e parole che rapiscono l'attenzione e la voglia di partecipare a quel canto liberatorio del senso di giustizia proletaria. Guccini, La locomotiva, la lasciava sempre come ultima canzone della Track-list (scaletta) proprio per quel potere arcaico e taumaturgico che riesce a trasmettere al pubblico questo brano che lo stesso autore scrisse in una nottata, di getto, praticamente in un'ora. 
A     suon

di rima    baciata
Da Vito partivano
gare in ottava rima, poesie a braccio, contro Umberto Eco e Roberto Benigni: “Eco era imbattibile, ovviamente. Ma io me la cavicchiavo, lo mettevo in difficoltà. Benigni finiva che la buttava quasi sempre sul volgare e sul mimico, e su questo era imbattibile”. La sinistra è anche Vito, l’osteria a due passi da via Paolo Fabbri 43, fuori porta San Vitale, quartiere Cirenaica, un tempo culla di Guccini.
E Gregory Corso    poetava
Una notte, ricorda Guccini, entrò Stefano Bonaga trafelatissimo, per dire di un incendio e corremmo. Il caso volle che con noi ci fosse anche il poeta della Beat Generation Gregory Corso che beveva con noi. Di fronte a tutto quel fuoco, si mise a declamare versi innanzi a fiamme alte dieci piani, in preda a uno dei suoi momenti di follia alcolica, lo allontanai dal fuoco. Bologna, i ricordi sono un oceano. I portici. Volti che cambiano. Amici che prendono altri sentieri e le vacche a Pavana che muggiscono perché devono fare comunque sempre il latte. Alla fine, non mi poteva andare meglio se penso a come mi sono tuffato nella mia vita.

Lucio? Un flipper
“Se Lucio mi manca? Non ci frequentavamo da tempo e comunque era sempre Vito il posto dove potesse uscire qualcosa. Memorabile una sera: io, lui e Vecchioni che cantiamo Porta Romana. Credo che Lucio sperimentasse e volesse continuare a sperimentare strade nuove. Era così, un personaggio multiforme e imprevedibile. Forse il più imprevedibile”. Sono tante le parole che potrebbero indicizzare il maestrone. Anarchico, panteista, per nulla ostico e molto agnostico. Cantore del dubbio, convinto che fare domande sia meglio che azzardare risposte perché interrogarsi presuppone ricerca, e a rispondere si rischia l’arroganza. Fumatore di gesto, non di respiro, le sue sigarette sono sempre fumate fino a metà, mai intere. L’accenderle è più un’abitudine più che il risultato di una dipendenza di nicotina. Un autentico astrologo al contrario: “Cantare il tempo andato è il mio tema”. I suoi personaggi non sempre conoscono la benedizione del lieto fine ma si tengono stretti la consolazione della memoria, quella che fa caldo quando improvvisamente intorno a te s’è fatto il gelo. Lo chiamano il cantautore con l’Eskimo (ma lui l’Eskimo l’avrà indossato si e no 10 volte in tutta la sua vita, si è limitato d’inserirlo in una canzone e da allora…).

"Il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere"


Custodire i     ricordi,
carezzare le    età
Alcuni gli lamentano il fatto di portarsi sempre sul palco non un fiasco di vino, lui detesta il fiasco. Vi sfido a trovare una foto dove Francesco tracanna sangiovese da un fiasco. Sono sempre bottiglie e lui ci tiene a rimarcare questo fatto. Il vino lo si beve dal vetro non impagliato. No al fiasco, si alla bocia. Poi c'è chi lo rimproverava di portare in scena il ’68 e la vecchia cultura di sinistra solo perché veste, tutt'ora, sempre con Clark’s, jeans, maglione e camicia. Tra tutti questi sciocchi luoghi comuni (per la verità ormai quasi disabitati) uno solo è veramente molesto e ingrato, quello che lo accusa di scrivere da trentanni la stessa canzone. Una cattiveria come tante, come quando Keith Richards disse di essersi tirato un grammo di cocaina mista alle ceneri di suo padre morto 15 anni fa, per poi smentire tutto dopo una settimana. La cornacchia dei Rolling non è battuto da nessuno in quanto Dark-Noir-Style.
Ai     poeti
del     Web
Tornando a Guccini, sarebbe sufficiente ascoltare i suoi dischi con attenzione, per rendersi conto che come fiumi carsici fanno spazio a mille tranelli come i vecchi trumeau. Sono dischi a doppio fondo, a doppia memoria e in certi casi a doppio senso con lo stesso fraseggio, pur riconoscendo l’ispirazione musicale primaria, la ballata alla Dylan, Song Route 66, l'America. Fra la via Emila e il West. Si tratta, del resto, d’inesattezze ampiamente compensate dall’amore di chi lo segue da anni e ne apprezza la coerenza, oltre che la bravura. Dopo De André, ho sempre posto Guccini, Conte e Capossela allo stesso livello, tutti secondi. D’innegabile per chiunque c’è la sua straordinaria abilità nel farsi burattinaio di parole, tanto in canzone quanto in prosa. Non è un poeta, per sua stessa ammissione, nonostante gli sia stato assegnato il Premio Montale (e scusate se è poco, poeti del Web!).
Scherza.
Con doveroso rispetto, anche della sua casuae omonimia con l'attuale Papa, definendolo un personaggio che ci riserverà dolci sorprese. "Quando ho sentito la piazza che gridava 'Francesco, Francesco' mi sono detto: Mi sembra di averlo già sentito, sebbene in misura minore. In realtà io lo sapevo già. Papa Francesco mi aveva telefonato prima del conclave, anticipandomi di volersi chiamare come me. Io ovviamente gli ho detto che era una bella idea, ma di non dimenticarsi di quell'altro Francesco, quello d'Assisi, quello che si spogliò di tutto per vivere da povero". Non perde occasione per rendere il clima più surreale e ironico, lasciando comunque la sua traccia mai goffa o fuori luogo: "se devo sparare cazzate, piuttosto sto zitto". Che siano queste le sue medicine per invecchiare così alla grande? Della politica è rimasto sbalordito della violenza di Beppe Grillo definendolo troppo feroce, violento con i suoi eletti. Effettivamente, se non si fida neanche di loro, cosa fa politica a fare?
L'ultimo disco di Francesco Guccini, uscito il 27 novembre 2012


Vacca di un cane

Tecnicamente, si dice che    il pezzo di una canzone è riuscito quando rimane celibe se letto in assenza della musica e che una canzone è davvero tale quando il risultato è superiore alla somma di parole e musica. Anche sotto questo aspetto, appare chiara la parabola gucciniana tutt’altro che statica. Agli inizi con parole semplici e forti, gli ultimi tempi, con azzardate e riuscite allitterazioni: “Perché fra i libri schiacciare rose di risa paghe e piene delle spose”, versi coraggiosi, “E una notte lasciasti portarti via” e atmosfere struggenti: “E correndo m’incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei”. Semmai, quel che incuriosisce è la variazione sul tema. Se ne La locomotiva ”aria” faceva rima con bomba proletaria “La bomba proletaria che illuminava l’aria”, in Non bisognerebbe “aria” bacia la “pista solitaria” ("come un cane che alza il muso e annusa l’aria, batti sempre la tua pista solitaria”). Diversa è la lingua letteraria. Se Gadda e Meneghello inserivano le voci dialettali in un contesto alto, Guccini opera in direzione opposta, spruzzando appena d’italiano il pastiche della lingua orale e regionale, densa di anacoluti e incongruenze, slang e invenzioni. Se di flusso si vuole parlare, non è joyciano, semmai è quello che Franco Bernini chiama flusso di magnetofono. Un parlato che oggi non esiste più.
                                  Il dizionario delle cose perse
Il Maestrone di   Pavana oggi ha 73 primavere sulle spalle e lui lo dice che iniziano a pesare annunciando il suo ritiro dalle scene e che non inciderà più canzoni. Il suo ultimo disco e le sue canzoni storiche gireranno in tour comunque attraverso Biondini, Tempera, Marangolo e Mingotti, gli ultimi musicisti con i quali s’è ritrovato a fine carriera. Hanno rifiutato invece Ellade Bandini e Roberto Manuzzi. La chitarra Guccini l’ha appesa al chiodo. Lasciata in un angolo della sua casa di Pavana dove ora vorrebbe restare a scrivere e leggere. Il cantante lavora alla seconda parte de “Il dizionario delle cose perdute” e con Loriano Machiavelli scriverà libri gialli.
Foto storica: Guccini e De André
I      ragazzi
della      Band
Un lungo
saluto alla musica che a fatica gli appassionati e i critici sono riusciti ad accettare, ma non tutti. “Ho tre chitarre appoggiate al muro”, così aveva cercato di spiegare Guccini nell’ultimo incontro alla storica osteria da Vito a Bologna, “Non le prendo mai in mano, vorrà dire qualcosa? Gli ultimi tempi mi veniva male anche ai polpastrelli, l'allenamento vuol dire, i calli col tempo se ne vanno dalle falange. Ma questo non significa che non faccia più nulla. Continuo a fare altre cose. Non penso mai durante il giorno alla musica, a comporre, a suonare la chitarra. Mai” a detto da Fazio poche sere fa. E l’addio alla musica lo fa con il cuore più leggero adesso che sa che ci saranno i “ragazzi” della vecchia band a suonare i testi di un’intera carriera pluri 40ennale. Anche se, come ha detto il mio amico Fernando, quando uno del peso e dell'altezza come Guccini, non solo fisicamente ma soprattutto musicalmente e culturalmente abbandona, rimane sul volto una segno velato di tristezza.